Category: Processo amministrativo
GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA – SINTETICITA’ DEGLI ATTI – CGA ordinanza 20.11.2015 n. 657, pres. Lipari, est. Neri.
Un ricorso di 74 pagine, ritenuto “palesemente non proporzionato alla complessità della causa”, deve essere sintetizzato in 20.
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Motivazione.
considerato altresì che il dovere di chiarezza e sinteticità degli atti è sancito agli artt. 3, comma 2, e 26, comma 1, c.p.a. e che, oltre ad essere condiviso dalla giurisprudenza amministrativa (C.G.A. 19 aprile 2012 n. 395), è stato di recente affermato pure dalle sezioni unite della Corte di Cassazione (Cass., S.U., 11 aprile 2012 n. 5698);
considerato che il predetto dovere di chiarezza e sinteticità degli atti risponde anche ad esigenze avvertite in sede sovranazionale, così come dimostrato dalle «Istruzioni pratiche alle parti relative ai ricorsi diretti e alle impugnazioni» redatto in ambito europeo dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea;
considerato che il presente appello consta, escluse le relate di notifica in calce all’atto, di settantaquattro pagine;
considerato che non può essere considerata riepilogativa delle censure l’ulteriore memoria prodotta in data 13 novembre 2014;
considerato che l’atto di appello appare palesemente non proporzionato al livello di complessità della causa;
considerato che possono anche profilarsi ragioni di inammissibilità del ricorso quando si contravviene alla regola dell’immediato coordinamento tra la decisione impugnata e i motivi di censura (Cass., S.U., 17 luglio 2009 n. 16228);
considerato dunque che per la decisione dell’impugnazione (e il rispetto anche da parte di questo Consiglio del dovere di chiarezza e sinteticità di cui al citato art. 3, comma 2, c.p.a.) parte appellante va invitata a produrre una memoria riepilogativa – che contenga l’esposizione chiara, sintetica ed omnicomprensiva di tutte le censure già proposte nel presente giudizio di impugnazione – alla quale fare riferimento per la decisione del presente giudizio cautelare;
considerato che tale memoria dovrà orientativamente essere:
– di non oltre venti pagine per un massimo di venticinque righi per pagina;
– su formato A4;
– facilmente leggibile e redatta solo su una faccia della pagina («recto» e non «recto verso»);
– con testo scritto in caratteri di tipo corrente nonché con interlinee e margini adeguati;
GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA – APPELLO – Questione di giurisdizione – Sollevata per la prima volta in secondo grado da parte di chi in primo grado aveva sostenuto la giurisdizione amministrativa – Abuso del diritto – Dubbio – Deferimento all’Adunanza plenaria – CGA ordinanza 22.10.2015 n. 634, Pres. De Lipsis, est. Anastasi.
Il CGA ipotizza che il mezzo col quale l’appellante incidentale – dopo aver in primo grado affermato la sussistenza della giurisdizione amministrativa – deduce invece che la controversia all’esame è devoluta alla giurisdizione del giudice civile sarebbe da ritenere ammissibile e pertanto deferisce la questione all’Adunanza plenaria.
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Motivazione.
5. Come è noto, l’applicazione ad opera della giurisprudenza dell’art. 37 cod. proc. civ. ( secondo cui il difetto di giurisdizione è rilevato, anche d'ufficio, in qualunque stato e grado del processo) ha subito nel tempo una profonda evoluzione in senso sostanzialmente restrittivo.
In tal senso, la Corte regolatrice fino dalla metà degli anni settanta ha rilevato la necessità di coordinare i principi sulla rilevabilità d'ufficio del difetto di giurisdizione con quelli che disciplinano il sistema delle impugnazioni statuendo che, ove il giudice di primo grado abbia espressamente statuito sulla giurisdizione, il riesame della questione da parte del giudice di secondo grado postula che essa sia riproposta con il mezzo di gravame ostandovi, altrimenti, la formazione del giudicato interno. ( ad es. SS.UU. n. 1506 del 1976).
Successivamente la stessa Suprema Corte è pervenuta ad escludere il rilievo d’ufficio del difetto di giurisdizione da parte del giudice dell’impugnazione quando il giudice di primo grado abbia statuito in forma implicita sulla giurisdizione attraverso l'adozione di una pronuncia di merito o di carattere processuale che non avrebbe, però, potuto essere adottata se non da un organo provvisto di potestà giurisdizionale. ( ad es. SS.UU. n. 24883 del 2008).
La giurisprudenza del Consiglio di Stato, per parte sua, sembra aver seguito sull’argomento un percorso differente.
In particolare – a prescindere da quegli indirizzi che sino ad epoca non lontana hanno privilegiato una interpretazione letterale dell’art. 37 cod. proc. civ. e della corrispondente norma contenuta nell’art 30 comma 1 della legge n. 1034 del 1971: cfr ad es. V Sez. n. 8083 del 2004 – negli orientamenti maggioritari la regola degli effetti preclusivi derivanti dal giudicato implicito sulla giurisdizione ha stentato ad essere condivisa. ( cfr. per tutte V Sez. n. 5479 del 2008).
Come è noto, la questione è stata poi positivamente risolta con l’entrata in vigore del codice del processo amministrativo il cui art. 9 comma 1 prevede che “ Il difetto di giurisdizione è rilevato in primo grado anche d’ufficio. Nei giudizi di impugnazione è rilevato se dedotto con specifico motivo avverso il capo della sentenza impugnata che, in modo implicito o esplicito, ha statuito sulla giurisdizione”.
Come è evidente, il percorso evolutivo di cui si è dato sinteticamente conto ha portato a prevalere – rispetto all’originaria idea della giurisdizione come espressione inderogabile della sovranità statale – i principi di economia processuale e di ragionevole durata del processo (asse portante della nuova lettura della norma), della progressiva forte assimilazione delle questioni di giurisdizione a quelle di competenza e dell'affievolirsi dell'idea di giurisdizione intesa come espressione della sovranità statale, essendo essa un servizio reso alla collettività con effettività e tempestività, per la realizzazione del diritto della parte ad avere una valida decisione nel merito in tempi ragionevoli. ( cfr. in tal senso SS.UU. n. 28545 del 2008).
6. In analoga prospettiva si è da ultimo affermato, nell’ambito della giurisprudenza del Consiglio di Stato, un ormai maggioritario orientamento in sostanza volto a stigmatizzare l’utilizzo potenzialmente strumentale delle questioni di giurisdizione.
In proposito è stato chiarito che il divieto di abuso del diritto, in quanto espressione di un principio generale che si riallaccia al canone costituzionale di solidarietà, si applica anche in ambito processuale, con la conseguenza che ogni soggetto di diritto non può esercitare un'azione con modalità tali da implicare un aggravio della sfera della controparte, sì che diviene anche divieto di abuso del processo; pertanto, integra abuso del processo la contestazione della giurisdizione da parte del soggetto che abbia optato per quella giurisdizione e che, pur se soccombente nel merito, sia risultato vittorioso, in forza di una pronuncia esplicita o di una statuizione implicita, proprio sulla questione della giurisdizione, con la conseguenza che in definitiva, la sollevazione della detta auto-eccezione in sede di appello, per un verso, integra trasgressione del divieto di venire contra factum proprium (paralizzabile con l'exceptio doli generalis seu presentis) e, per altro verso, arreca un irragionevole sacrificio alla controparte, costretta a difendersi nell'ambito del giudizio da incardinare innanzi al nuovo giudice in ipotesi provvisto di giurisdizione, adito secondo le regole in tema di translatio iudicii dettate dall'art. 11 Cod. proc. amm. ( così V Sez. n. 656 del 2012. Cfr. anche VI Sez. n. 1537 del 2011, VI Sez. n. 703 del 2013, III Sez. n. 1630 del 2014, V Sez. n. 1605 del 2015 e VI Sez. n. 1778 del 2015).
Al riguardo il Collegio osserva che tale impostazione ( benchè elaborata in relazione alla posizione del ricorrente principale) si attaglia anche al caso qui in esame in cui il ricorrente incidentale, in primo grado, ha affermato la sussistenza di quella giurisdizione amministrativa che ora, in appello, tra l’altro dopo essere risultato vincitore nel merito, nega venendo appunto contro il fatto proprio.
In sostanza, applicando il richiamato orientamento, anche il ricorrente incidentale – nella misura in cui sceglie di articolare domande ( art. 42 cod. proc. amm.) di accertamento pregiudiziale volte comunque ad ottenere una pronuncia che precluda l'esame del merito del ricorso principale – incorre in un abuso se non versa lealmente e da subito l'intero arco delle eccezioni in grado di paralizzare l'iniziativa avversaria.
Tanto premesso, il Collegio osserva tuttavia in radice che l’impostazione di cui si è detto, ancorchè mossa da criteri ispiratori del tutto condivisibili, non sembra in realtà praticabile alla luce delle considerazioni che seguono.
In primo luogo, occorre chiarire che, diversamente da come sembra sostenere l’appellante, la deduzione per la prima volta in appello della questione di giurisdizione non costituisce una novità vietata – di per sè – dalla legge processuale.
Infatti quando l’art. 345 secondo comma cod. proc. civ. e l’art. 104 cod. proc. amm. vietano di proporre in appello eccezioni nuove rispetto a quelle versate in primo grado il riferimento è alle eccezioni c.d. in senso proprio e stretto, e cioè alle eccezioni (tra l’altro, di merito) che possono essere proposte solo dalle parti al fine di contrastare la domanda avversaria mediante l’allegazione di fatti impeditivi modificativi o estintivi.
Dal momento che invece il difetto di giurisdizione in primo grado è rilevabile d’ufficio, ne consegue – sotto lo specifico profilo ora in rassegna – che non viola il divieto di novità la parte la quale impugni la sentenza di primo grado per il difetto di giurisdizione, ancorchè non lo abbia appunto “eccepito” in prime cure.
Tanto premesso sul piano per così dire tecnico e venendo al tema nodale, non sembra che la nozione di abuso del diritto in sede processuale possa essere ricostruita partendo dalla violazione del dovere generale – che l’art. 88 comma primo cod. proc. civ. impone alle parti e ai loro difensori – di comportarsi in giudizio con lealtà e probità.
La violazione di questo preciso dovere giuridico al rispetto delle regole del gioco infatti può dare luogo soltanto a sanzioni ( ad es. non rimborso spese superflue: art. 92 cod. proc. civ.) o a valutazioni negative del comportamento tenuto dalle parti ( ad es. art. 116 secondo comma) ma non alla nullità/inammissibilità di atti di parte conformi allo schema processuale.
In realtà, in sede processuale il vero caso in cui l’abuso del diritto ( e cioè secondo la migliore dottrina l’agire perseguendo uno scopo diverso dalla funzione obiettiva per la quale la legge ha configurato l’istituto) è espressamente disciplinato è quello della lite temeraria ex art. 96 cod. proc. civ., sanzionata ( in sintesi) imponendo al soccombente che abbia agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave l’integrale risarcimento dei danni subiti dalla controparte.
Ora – anche a prescindere dal fatto che le norme in questione danno luogo soltanto a responsabilità risarcitoria aggravata – appare evidente da un lato che ex art. 96 la soccombenza è presupposto essenziale della responsabilità aggravata, la quale non può essere mai pronunciata a carico della parte vittoriosa; dall’altro che conseguentemente l’eventuale abuso nel disegno codicistico non può ontologicamente essere sanzionato ex ante con la declaratoria di inammissibilità della relativa domanda.
In realtà dunque un abuso del processo ( ostativo all’esame della domanda) non può essere configurato sulla base delle norme di rito, bensì soltanto proiettando sul campo processuale quelle regole contrattuali di buona fede e correttezza in relazione al dovere inderogabile di solidarietà di cui all'art. 2 Cost. siccome tendenti a comprendere nella funzione del rapporto obbligatorio pure la tutela della controparte, nel perseguimento di un giusto equilibrio tra gli opposti interessi. ( cfr. SS.UU. n. 23726 del 2007 in tema di frazionamento di un credito unitario nonchè ad es. III Sez. n. 8576 del 2013 in tema di frazionamento dell’esecuzione).
Ma, chiaramente, nel caso delle questioni in esame non sembra potersi predicare l’estensione dell’operatività di un principio di buona fede sostanziale e negoziale.
Il vero è, in conclusione, che nel diritto positivo l’unico caso in cui la questione di giurisdizione può ritenersi preclusa e’ il caso in cui sulla stessa si sia formato il giudicato implicito o esplicito.
Ne consegue – come insegna la Suprema Corte – che qualora chi agisce in giudizio, dopo avere adito un giudice, ne eccepisca in appello il difetto di giurisdizione, e’ legittimato a farlo; infatti, tale eccezione non può ritenersi preclusa per carenza di interesse per il solo fatto di avere adito un giudice, che lo stesso attore ritiene successivamente privo di giurisdizione, atteso che una simile decisione si porrebbe in contrasto con il fondamentale principio di cui all’art. 25 Cost., secondo cui nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge.” ( cfr. SS.UU. n. 26129 del 2010).
Ancor più recisamente la Corte nega che “a rendere non conoscibile la questione di giurisdizione, sia predicabile – accanto al sistema della preclusione per mancata deduzione con appello (anche incidentale) – l'operatività di una clausola di divieto di "abuso" ostativa alla denunzia per chi abbia adito il giudice la cui giurisdizione vorrebbe poi contestare. Queste Sezioni Unite hanno ripetutamente affermato che sia proponibile la questione di (difetto di) giurisdizione (del giudice amministrativo) – sollevata in sede di impugnazione della decisione del TAR – anche da parte di chi abbia invocato la giurisdizione di quel giudice amministrativo e poi sia risultato, nel merito, soccombente in esito a quel giudizio, posto che l'unica preclusione configurabile alla stregua del vigente quadro normativo, ed esplicitata nell'art. 9 del vigente C.P.A., è quella derivante dalla formazione del giudicato implicito nella non impugnata decisione di merito” ( così SS.UU. n. 1006 del 2014. Cfr. pure SS.UU. n. 7097 del 2011 e n. 1006 del 2014).
Alla stregua di quanto sin qui osservato il Collegio ritiene che il mezzo col quale l’appellante incidentale – dopo aver in primo grado affermato la sussistenza della giurisdizione amministrativa – deduce invece oggi che la controversia all’esame è devoluta alla giurisdizione del giudice civile sarebbe da ritenere ammissibile.
Visto il possibile insorgere di un contrasto giurisprudenziale, l’esame della relativa questione è deferito all’Adunanza Plenaria ai sensi dell’art. 99 cod. proc. amm..
GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA – ESECUZIONE DEL GIUDICATO – Astreintes e crediti pecuniari – Tar Catania, II, ordinanza, 23.11.2015 n. 2725 – Pres. Vinciguerra, est. Leggio.
La corresponsione delle c.d. “astreintes” è esclusa in presenza di difficoltà dell’adempimento collegata a vincoli normativi o di bilancio e comunque è possibile per l’inadempimento degli obblighi di fare infungibili e non per l’inadempimento delle obbligazioni pecuniarie.
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Motivazione.
Ritenuto, invece, che non può accogliersi la domanda di corresponsione delle c.d. “astreintes”, posto che si ritengono sussistenti, nel caso di specie, quelle “altre ragioni ostative” previste dall’art. 114, co. 4, lett. e, del c.p.a., che si oppongono all’applicazione concreta dell’istituto, da ravvisare nella difficoltà dell’adempimento collegata a vincoli normativi e di bilancio (sul punto v. A.P. n. 15/2014, nonché TAR Napoli n. 6797/2014, TAR Catania n. 628/15 e n. 2487/2014);
Ritenuto inoltre che, poiché l’“astreinte” costituisce un mezzo di coazione indiretta sul debitore, necessario in particolare quando si è in presenza di obblighi di fare infungibili, non appare equo condannare l’Amministrazione al pagamento di ulteriori somme di denaro, quando l’obbligo di cui si chiede l’adempimento costituisce, esso stesso, adempimento di un’obbligazione pecuniaria, dovendo considerarsi che, in tal caso, per il ritardo nell’adempimento sono già previsti dalla legge gli interessi legali, ai quali, pertanto, la somma dovuta a titolo di “astreinte” andrebbe ad aggiungersi, con effetti iniqui di indebito arricchimento per il creditore.
P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia sezione staccata di Catania (Sezione Seconda) respinge la richiesta dei ricorrenti di fissazione di una somma di denaro, ai sensi dell’art. 114, quarto comma, lett. e), per l’ulteriore ritardo nell’esecuzione del giudicato;
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NOTIFICA VIA PEC – Nel giudizio amministrativo.
Con una recentissima sentenza Il CGA ritiene valida la notifica via PEC nel giudizio amministrativo.