Author Archive: Nicolò D'Alessandro

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PERSEVERARE È ILLEGITTIMO (OLTRE CHE DIABOLICO) – La possibilità di reiterazioni degli effetti del provvedimento giustifica la concessione di misure cautelari – C.G.A. 16.12.2016, ord. pres. Zucchelli, rel. Gaviano

Giustizia Amministrativa – Legittimazione attiva – Società assoggetta a commissariamento ex 32 D.L. 90 del 2014- Sussistenza

Giustizia Amministrativa – Sospensione dell'atto impugnato e misure cautelari – Periculum in mora – Sussistenza

Sussiste la legittimazione attiva della società assoggettata a commissariamento ex 32 del D.L. 90 del 2014 ogni qual volta l’azione sia proposta a tutela dell’integrità del proprio patrimonio sociale.

Il periculum in mora, idoneo a giustificare la concessione della misura cautelare (ancorchè nelle forme della sollecita trattazione della causa nel merito da parte del competente Giudice di primo grado) è riscontrabile anche dalla possibilità di future reiterazioni degli effetti del provvedimento censurato.

Nota:

Con l’ordinanza riportata il CGA ha sospeso gli effetti dell’ordinanza cautelare emessa dal TAR Catania la quale aveva negato la sospensione:

-della deliberazione di GM n. 103 del 21-6-2016 avente ad oggetto la proroga del contratto per il servizio di igiene urbana e ambientale nel territorio del Comune di Catania;

-della determinazione dirigenziale – direz.. ecol. serv. n° 13/535 del 29-6-2016 e di ogni altro atto connesso.

Il diverso orientamento del Giudice d’appello ha riguardato sia la legittimazione attiva della società commissariata sia la sussistenza del periculum in mora che (in potenziale dissonanza con l’art. 34 del cpa –il quale fa espresso divieto al giudice di pronunciarsi con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati) ha ritenuto di concedere la misura cautelare in considerazione “dalla possibilità di future reiterazioni degli effetti del provvedimento censurato

E’ da segnalare che, sul medesimo contenzioso, con ordinanze n. 11 e 12 del 15 gennaio 2016, il CGA aveva accolto la misura cautelare proposta dalla società avverso la sentenze TAR Catania n. 1810/2015 al dichiarato scopo di informare l’azione futura dell’Ammirazione attiva (“disponendo – per gli effetti conformativi e propulsivi che ne conseguono – la sospensione dell’appellata sentenza”).

CGA 745/2016

 

21 Dicembre 2016 | By More

APPALTI – L’OMESSA SUDDIVISIONE IN LOTTI DEVE ESSERE MOTIVATA ED IN SEDE DI RIEDIZIONE DEL POTERE DEVE TENERSI CONTO DELLE RAGIONI OPPOSTE DALLE PARTI NEL GIUDIZIO – C.G.A. 16.12.2016, ord., pres. Zucchelli, rel. Gaviano

C.G.A. 16.12.2016,  n. 750, ord. pres. Zucchelli, rel. Gaviano

Contratti – Procedura di gara – Suddivisione in lotti – Motivazione – Necessità

Giustizia Amministrativa – Obbligo della pubblica amministrazione di conformarsi al giudicato cautelare – Specificazione della portata dell’effetto conformativo – Possibilità.

L’onere imposto dall’art. 2, comma 1 bis, del d.lgs. n. 163/2006, che prescrive di suddividere gli appalti in lotti funzionali alla sola condizione che ciò sia “possibile ed economicamente conveniente” non può essere legittimamente soddisfatto mediante affermazioni apodittiche non potendosi prescindere -in particolare- da una specifica analisi in punto di “convenienza economica”.

In sede cautelare il Giudice amministrativo può indicare la portata degli effetti conformativi del decisum.

Nota:

Il Giudice d’appello, andando in contrario avviso a quanto statuito dal TAR Palermo, ha ritenuto “meritevoli di favorevole scrutinio” le censure della partecipante alla gara “nella parte in cui … contesta(ta) la violazione dell’art. 2, comma 1 bis, del d.lgs. n. 163/2006, norma che prescrive di suddividere gli appalti in lotti funzionali alla sola condizione che ciò sia “possibile ed economicamente conveniente”” ed ha “rilevato, infatti, che la motivazione fornita dall’Amministrazione a sostegno della propria difforme scelta, affidata essenzialmente ad affermazioni che si presentano del tutto apodittiche, non sembra idonea a soddisfare il puntuale onere di giustificazione che la norma citata impone, il quale non sembra poter prescindere -in particolare- da una specifica analisi in punto di “convenienza economica”.

E’ peculiare, e merita di essere sottolineato, che il Giudice di primo grado (ord. n. 1170/2016 del 31.10.2016) “quanto al profilo della dedotta omessa motivazione del contestato accorpamento in unico lotto”, pur dichiarando -incidentalmente- che la “motivazione … in effetti non appare chiaramente enunciata negli atti di gara”, ha dato spazio alle “ragioni addotte dalla resistente ASP” in sede di giudizio le quali, sono state stimate “idonee a sintetizzare l’iter logico dalla stessa seguito al fine di garantire al meglio l’interesse dei pazienti e quindi l’efficienza del servizio” ancorché ciò sia avvenuto ex post.

Di converso il Giudice d’appello ha statuito espressamente “che la Stazione appaltante, ove ritenesse di poter reiterare la propria scelta di accorpamento dei lotti, non potrebbe in tale eventualità esimersi dal prendere in considerazione, in sede motivatoria, né la ben scarsa partecipazione registrata dalla propria gara, né le obiezioni tecniche che alla sua scelta sono state opposte con la presente impugnativa” dando così rilievo ad elementi successivi agli atti impugnati ma antecedenti (sebbene extra procedimentali) all’ipotizzato possibile futuro provvedimento chiarendo, in tal modo, la portata degli effetti conformativi da riconnettersi alla decisione cautelare.

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Per leggere i provvedimenti di primo e secondo grado cliccare sui seguenti link:

Tar Palermo 1170/2016

CGA ord. 750/2016

20 Dicembre 2016 | By More

CRITERI E LIMITI DIMENSIONALI DEGLI ATTI DIFENSIVI: andiamo nella direzione corretta?

Cari colleghi,
intervengo brevemente sulle recenti iniziative in ordine all’art. 13 ter del C.P.A. per segnalare un errore di prospettiva nel quale rischiamo di cadere.
Benché sia diffusa la consapevolezza che il Giudice amministrativo percepisca come problema i ricorsi lunghi e complessi il tenore dell’art. 13 ter, primo comma, è meno massimalista del dibattito che lo ha generato e che lo sta seguendo.
La parte della disposizione di massima rilevanza, secondo il mio modesto giudizio, è quella nella quale si afferma che «le parti redigono il ricorso e gli altri atti difensivi secondo i criteri e nei limiti dimensionali stabiliti con decreto del presidente del Consiglio di Stato».
Mi sembra evidente che i “criteri” ed i “limiti dimensionali” siano concetti del tutto distinti e, mentre i secondi si limitano ad esprimere una “quantità” da misurarsi in numero di pagine o di caratteri o altro, i “criteri” attengono ad un aspetto connesso alla logica e rimanda ai buchi del setaccio che consentono ad alcune cose di passare ad altre no.
Mi stupisce, a questo punto, che lo stesso Presidente del Consiglio di Stato, nell'illustrare “alcuni punti sui quali dovrebbe basarsi il futuro provvedimento” afferma che dovrebbe sostituirsi “il criterio dei numeri delle pagine introducendo quello del numero massimo di caratteri utilizzabili”.
Certo, è una soluzione come un’altra ma i “criteri” di redazione degli atti difensivi di cui parla l’art. 13 ter non sono certo i criteri per determinare i limiti dimensionali che attengono –appunto- a limiti quantitativi (ovvero a come calcolarli) ma non centrano nulla con i criteri di redazione del ricorso e degli altri atti difensivi.
Detto ciò è possibile immaginare dei “criteri” di redazione degli atti difensivi a cui, solo dopo, si debbano applicare i limiti dimensionali?
A mio giudizio si.
L’anteposizione della rubrica al motivo di ricorso (praticata pressoché costantemente dagli amministrativisti) è un “criterio” di redazione degli atti difensivi ed è anche utile per gli Avvocati che lo utilizzano e per i Giudici che sono chiamati a decidere. Un’applicazione meramente contabile dei limiti dimensionali potrebbe far sparire questa buona pratica che potrebbe essere ritenuta un inutile orpello il quale sottrae spazio utile all’esplicazione dei motivi.
Siamo veramente certi di voler abbandonare questo metodo di redazione dei ricorsi? Quantomeno, le rubriche dei ricorsi dovrebbero tenersi fuori dal calcolo dai limiti dimensionali.
Nell'esperienza di ogni giurista c’è, poi, la consapevolezza che alcune controversie possono essere decise applicando una singola regola giuridica e magari risolvendo una singola questione di diritto ed altre controversie, più complesse, nelle quali le regole da applicare sono molteplici e le questioni di diritto possono essere ancora di più.
Questa consapevolezza è anche del legislatore il quale all’art. 72 del CPA (significativamente di poco precedente all’art. 73 bis) istituisce una corsia preferenziale per quelle controversie che è possibile decidere risolvendo «una singola questione di diritto».
Mi sembra, a questo punto, che -al fine di non comprimere eccessivamente il diritto di difesa- i limiti dimensionali debbano essere calcolati, non con riferimento all'intero ricorso (ad es. 20 pagine e non più) ma con riferimento alla singola questione di diritto (ad es. da illustrarsi in 2 pagine, 50 righe, 600 parole o 3.500 caratteri, poco importa) e, quindi, al singolo motivo di ricorso.
Infine, proprio perché il codice da rilevanza alla risoluzione della questione di diritto, mi chiedo se non sarebbe utile riproporre, nell'ambito del processo amministrativo, l’onere di fissare il quesito di diritto a cui il Giudice deve dare risposta così come si è praticato per alcuni anni nei giudizi di legittimità avanti la Cassazione.
In definitiva i principi di sinteticità e chiarezza e l’obiettivo di consentire lo spedito svolgimento dei giudizi passano, a mio parere, più da una standardizzazione del modello di ricorso (il che significa individuare criteri uniformi e condivisi) che non dalla mera previsione di limiti dimensionali al ricorso nel suo complesso (neppure imposti esplicitamente per legge e comunque da coniugarsi con i criteri di redazione).
La redazione di un indice dei motivi di ricorso, previsto dalle prime indicazioni del presidente De Lise, sfuggiva all'idea (anzi la contraddiceva) della mera riduzione del numero delle pagine ma era volta a promuovere un modello che facilitasse la lettura dell’atto giudiziario.
Per di più solo dalla standardizzazione del modello di ricorso può derivare una più agevole lettura informatica dei medesimi tale da consentire, ad es., la contestuale fissazione in udienze tematiche dei ricorsi che hanno motivi con uguali rubriche ovvero con rubriche le quali richiamano identiche norme.
Alla base del dovere dell’avvocato di difendere il proprio singolo cliente c’è quello di preservare nell'ordinamento adeguati spazi difensivi; ciò non avviene prevedendo meri limiti dimensionali degli atti difensivi e, magari, una congerie di eccezioni difficilmente valutabili a priori (chi stabilisce la complessità degli atti impugnati? Faremo appelli solo per decidere che gli atti impugnabili erano complessi e, quindi, ha fatto male il Giudice di primo grado a non esaminare i motivi oltre la 20° pagina?).
Francamente preferirei assoggettarmi all'onere di:
 redigere la rubrica secondo format prestabiliti;
 formulare il quesito di diritto
 contenere in 2 pagine ogni singolo motivo di ricorso
piuttosto che avere un limite dimensionale complessivo -anche di 40 pagine (formula esclusa).
Avv. Nicolò D’Alessandro

8 Dicembre 2016 | By More

L. R. 16/2016 – delibera del C.d M. 11.10.2016 di impugnativa avanti alla Corte Costituzionale

Recepimento del Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia approvato con decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380. (10-8-2016)  Sicilia – Legge n.16 del 10-8-2016 – ​11-10-2016

La legge della Regione Sicilia n. 16 del 2016, che recepisce il testo unico dell’edilizia approvato con d.p.r. n. 380/2001, presenta profili di illegittimità costituzionale in relazione all’articolo 3, comma 2, lettera f); all’articolo 11, comma 4 , all’articolo 14 e all’articolo 16 per i motivi di seguito specificati. Pertanto, se ne propone l’impugnativa ai sensi dell’articolo 127 della Costituzione. 

In via preliminare, si osserva nello Statuto della Regione Sicilia approvato con R.D.Lgs. 15 maggio 1946, n. 455, convertito in legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 2, attribuisce alla Regione competenza legislativa esclusiva in materia urbanistica. Detta competenza , ai sensi del medesimo articolo 14, comma 1, deve esercitarsi “nei limiti delle leggi costituzionali dello Stato” e deve inoltre rispettare le c.d. “norme di grande riforma economico-sociale” poste dallo Stato nell’esercizio delle proprie competenze legislative (cfr., per lo statuto siciliano, l’art. 14, comma 1, che discorre di «riforme agrarie e industriali»: sulla soggezione della potestà primaria della Regione siciliana alle norme di grande riforma economico-sociale cfr., ad es., le sentt. Corte Costituzionale nn. 21 del 1978, 385 del 1991, 153 del 1995). 

Inoltre, si ricorda che la Corte Costituzionale, premesso il carattere “trasversale” della materia “tutela dell’ambiente”, che inevitabilmente comporta ambiti di sovrapposizione rispetto ad altri ambiti di competenza, in più occasioni ha affermato che «la disciplina unitaria e complessiva del bene ambiente inerisce a un interesse pubblico di valore costituzionale primario ed assoluto e deve garantire un elevato livello di tutela, come tale inderogabile da altre discipline di settore» e che pertanto la legislazione statale deve prevalere rispetto a quella dettata dalle Regioni o dalle Province autonome, salvo che queste ultime non intervengano in modo più rigoroso rispetto a quanto previsto dalla normativa statale (cfr. sent. n. 20/2012, n. 191/2011, n. 378/2007; n. 226/2003; n. 536/2002; n. 210/1987; n. 151/1986). 

Infine, in relazione alla materia “protezione civile”, considerato che lo Statuto speciale della Regione Siciliana non prevede espressamente detta materia, né nell’elencazione contenuta nell’articolo 14, che riguarda le materie di competenza legislativa esclusiva, né nell’ambito dell’articolo 17 , concernente le materie per le quali è attribuita alla Regione competenza all’emanazione di leggi entro i limiti dei principi ed interessi generali cui si informa la legislazione dello Stato, deve ritenersi, in virtù della clausola di maggior favore contenuta nell’articolo 10 della L.Cost. 18 ottobre 2001, n. 3, che la Regione Siciliana sia titolare di potestà legislativa concorrente nella materia “protezione civile”, competenza deve esercitarsi quindi nel rispetto dei principi fondamentali della materia posti dallo Stato. 

Nello specifico, si rilevano i seguenti profili di illegittimità costituzionale: 

1) ARTICOLO 3, COMMA 2, LETT. F) 

L’articolo 3, comma 2, prevede che «nel rispetto dei medesimi presupposti di cui al comma 1, previa comunicazione anche per via telematica dell'inizio dei lavori, nelle more dell'attivazione delle previsioni di cui all'articolo 17, da parte dell'interessato all'amministrazione comunale, i seguenti interventi possono essere eseguiti senza alcun titolo abilitativo: 
[omissis] 
f) gli impianti ad energia rinnovabile di cui agli articoli 5 e 6 del decreto legislativo 3 marzo 2011, n. 28, da realizzare al di fuori della zona territoriale omogenea A di cui al decreto ministeriale n. 1444/1968, ivi compresi gli immobili sottoposti ai vincoli del decreto legislativo n. 42/2004. [omissis]. 
Ai fini che qui rilevano, il comma 1 del suddetto articolo 3 fa salve tutte le prescrizioni relative alle «norme antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie, di quelle relative all'efficienza energetica, di tutela dal rischio idrogeologico nonché delle disposizioni contenute nel decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, della vigente normativa regionale sui parchi e sulle riserve naturali e della normativa relativa alle zone pSIC, SIC, ZSC e ZPS». 
La normativa regionale consente, dunque, di realizzare senza alcun titolo abilitativo tutti gli impianti ad energia rinnovabile «di cui agli articoli 5 e 6 del d.lgs. 28/2011», fatto salvo le prescrizioni indicate nel citato comma 1 in cui, però, non vi è alcun riferimento espresso alla disciplina prevista dal d.lgs. 152/2006, concernente la Valutazione di Impatto Ambientale (VIA). 
Preme, al riguardo, evidenziare che proprio l’articolo 5 del d.lgs. 28/2011 assoggetta, invece, la costruzione e l'esercizio degli impianti di produzione di energia elettrica alimentati da fonti rinnovabili alla procedura per il rilascio dell’autorizzazione unica di cui all’articolo 12 del d.lgs. 387/2003 che fa salva, qualora prevista, l’espletamento della verifica di assoggettabilità a VIA. 
Al comma 4 dell’articolo da ultimo citato è disposto, infatti, che detta autorizzazione «è rilasciata a seguito di un procedimento unico, al quale partecipano tutte le Amministrazioni interessate, svolto nel rispetto dei princìpi di semplificazione e con le modalità stabilite dalla legge 7 agosto 1990, n. 241, e successive modificazioni e integrazioni. Il rilascio dell'autorizzazione costituisce titolo a costruire ed esercire l'impianto in conformità al progetto approvato e deve contenere, l'obbligo alla rimessa in pristino dello stato dei luoghi a carico del soggetto esercente a seguito della dismissione dell'impianto o, per gli impianti idroelettrici, l'obbligo alla esecuzione di misure di reinserimento e recupero ambientale. Fatto salvo il previo espletamento, qualora prevista, della verifica di assoggettabilità sul progetto preliminare, di cui all'articolo 20 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, e successive modificazioni, il termine massimo per la conclusione del procedimento unico non può essere superiore a novanta giorni, al netto dei tempi previsti dall'articolo 26 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, e successive modificazioni, per il provvedimento di valutazione di impatto ambientale». 
Appare, dunque, evidente che l’articolo 3, comma 2, si pone in netto contrasto con quanto previsto dalla normativa nazionale sopra richiamata, assoggettando ad attività di edilizia libera genericamente tutti gli impianti da fonti rinnovabili ed escludendoli tout court, senza una valutazione caso per caso, dalla procedura di screening di cui all’articolo 20 del d.lgs. n.152/2006. 
A nulla rileva il richiamo fatto all’articolo 6 del d.lgs. 28/2011 che disciplina la procedura abilitativa semplificata e la comunicazione per gli impianti alimentati da energia in quanto qualora siano «previste autorizzazioni ambientali o paesaggistiche di competenza di amministrazioni diverse dal Comune», la realizzazione e l'esercizio dell'impianto e delle opere connesse devono comunque essere assoggettate all'autorizzazione unica di cui all'articolo 5 o in caso di atti di assenso a conferenza dei servizi. 
Conclusivamente, l’articolo 3, comma 2 della legge regionale de qua, contrastando con la normativa statale interposta in materia di tutela dell’ambiente di cui all’articolo 5 d.lgs. 28/2011, all’articolo 12 d.lgs. 387/2003 e all’articolo 20 del d.lgs. 152/2006, eccede dalle competenze statutarie riconosciute alla Regione siciliana dallo Statuto Speciale di autonomia (R.D.L. 15 maggio 1946, n. 455, convertito in legge costituzionale n. 2/1948). 

2) ARTICOLO 11 

L’articolo 11 della legge regionale in esame, al comma 4, dispone che «[…]Nelle restanti aree interne alle zone omogenee A, ovvero sugli immobili sottoposti ai vincoli del decreto legislativo n. 42/2004, ovvero su immobili ricadenti all'interno delle zone di controllo D di parchi e riserve naturali, ovvero in aree protette da norme nazionali o regionali quali pSIC, SIC, ZSC e ZPS, ivi compresa la fascia esterna di influenza per una larghezza di 200 metri, gli interventi cui è applicabile la segnalazione certificata di inizio attività non possono avere inizio prima che siano decorsi trenta giorni dalla data di presentazione della segnalazione.». 
Detto comma consente, dunque, di avviare alcuni interventi, ricadenti nei siti Natura 2000 e nei parchi, decorsi semplicemente 30 giorni dalla presentazione della segnalazione certificata di inizio attività (SCIA), senza una preventiva valutazione sulle possibili incidenze significative che detto intervento potrebbe avere sul sito stesso. 
Fermo restando la contraddittorietà della formulazione del comma 4 in esame con quanto previsto dal comma 1 del medesimo articolo 11 che, invece, consente l’inizio dei lavori solo dopo la «comunicazione da parte dello sportello unico dell’avvenuta acquisizione dei medesimi atti di assenso» necessari all’intervento, si deve evidenziare che il suddetto termine di 30 giorni risulta in contrasto con quanto previsto dall’articolo 5, comma 6, del d.p.r. 357/1997 “Regolamento recante attuazione della direttiva 92/43/CEE relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali, nonché della flora e della fauna selvatiche” che stabilisce «Fino alla individuazione dei tempi per l'effettuazione della verifica di cui al comma 5, le autorità di cui ai commi 2 e 5 effettuano la verifica stessa entro sessanta giorni dal ricevimento dello studio di cui ai commi 2, 3 e 4 e possono chiedere una sola volta integrazioni dello stesso ovvero possono indicare prescrizioni alle quali il proponente deve attenersi. Nel caso in cui le predette autorità chiedano integrazioni dello studio, il termine per la valutazione di incidenza decorre nuovamente dalla data in cui le integrazioni pervengono alle autorità medesime.». 
Detta disposizione, peraltro, è ribadita dall’articolo 20, comma 3 del d.p.r. 380/2001 al quale fa riferimento proprio il comma 1 dell’articolo 11 in esame. 
Pertanto, l’avvio dei lavori, consentito dopo i 30 giorni, in mancanza della “comunicazione da parte dello sportello unico dell'avvenuta acquisizione dei medesimi atti di assenso”, e soprattutto nei casi nei quali l’intervento abbia necessità di acquisire preventivamente la Valutazione di Incidenza, si configura come modalità di superamento dei pareri mediante silenzio-assenso, in palese contrasto con quanto previsto dall’articolo 6 del d.p.r. 357/1997 in attuazione della Direttiva 92/43/CEE. 
Alla luce di quanto sopra esposto, l’articolo 11, commi 4 della legge regionale de qua, ponendosi in contrasto con gli obblighi di origine comunitaria di cui alla Direttiva 92/43/CEE e con la normativa statale in materia di tutela dell’ambiente di cui all’articolo 5, comma 6, d.p.r. 357/1997, eccede dalle competenze statutarie riconosciute alla Regione siciliana dallo Statuto Speciale di autonomia (R.D.L. 15 maggio 1946, n. 455,convertito in legge costituzionale n. 2/1948). 

3) ARTICOLO 14 

L’articolo 14 recepisce nell’ordinamento regionale l’articolo 36 del testo unico dell’edilizia di cui al d.p.r. n. 380/2001, in materia di “accertamento di conformità”. Tale disposizione prevede, al comma 1, che “..il responsabile dell’abuso, o l’attuale proprietario dell’immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della presentazione della domanda”. Al comma 3 prevede che “In presenza della documentazione e dei pareri previsti, sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il responsabile si pronuncia con adeguata motivazione, entro novanta giorni, decorsi i quali la richiesta si intende assentita”. 
In proposito, si rappresenta che l’ articolo 36 del dPR n. 380/2001 richiede, ai fini del rilascio del titolo abilitativo in sanatoria, la doppia conformità alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente intesa come conformità dell’intervento sia al momento della realizzazione sia al momento della presentazione della domanda. 
La norma regionale in esame sembra invece introdurre una surrettizia forma di condono, andando così ad invadere la competenza legislativa statale. Infatti è evidente la norma regionale rende, di fatto, applicabile l’istituto dell’accertamento di conformità, previsto dal citato articolo 36 del TUE, anche ad interventi che, invece, eseguiti fino alla data di entrata in vigore della medesima L.R., avrebbero dovuto essere realizzati in conformità alla disciplina urbanistica ed edilizia previgente. E ciò con la possibilità, secondo la predetta disciplina regionale, di ottenere il rilascio del titolo abilitativo in sanatoria, nel presupposto che gli interventi “risultano conformi alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della presentazione della domanda”, ossia, nel caso di specie, attraverso una conformità alle nuove disposizioni della LR in commento conseguita ex post. 
Giova ricordare che la rigorosa regola statale del rilascio del titolo in sanatoria di cui all’ art. 36 del TUE è volta a sanare violazioni solo “formali”. La “doppia conformità” è riconosciuta a livello giurisprudenziale come principio “finalizzato a garantire l’assoluto rispetto della «disciplina urbanistica ed edilizia» durante tutto l’arco temporale compreso tra la realizzazione dell’opera e la presentazione dell’istanza volta ad ottenere l’accertamento di conformità” (cfr. C. Cost. n. 101/2013; Cons. Stato, IV, n. 32/2013, ove si precisa, tra l’altro che la disciplina urbanistica non ha effetto retroattivo; Cons. Stato, V, n.3220/2013; TAR Umbria n. 590/2014), La “doppia conformità”, è prevista sia per gli interventi realizzati in assenza di permesso di costruire, o in difformità da esso, ovvero in assenza di DIA alternativa o in difformità da essa (art. 36 del dPR n. 380/2001), sia per quelli eseguiti in assenza della o in difformità dalla SCIA (art. 37, co. 4 del dPR n. 380/2001). 
In particolare, nella citata sentenza n. 101/2013, la Consulta ha precisato che “Il rigore insito nel principio in questione trova conferma anche nell’interpretazione della giurisprudenza amministrativa, la quale afferma che, ai fini della concedibilità del permesso di costruire in sanatoria, di cui all’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, è necessario che le opere realizzate siano assentibili alla stregua non solo della disciplina urbanistica vigente al momento della domanda di sanatoria, ma anche di quella in vigore all’epoca di esecuzione degli abusi (pronunce del Consiglio di Stato, sezione IV, 21 dicembre 2012, n. 6657; sezione IV, 2 novembre 2009, n. 6784; sezione V, 29 maggio 2006, n. 3267; sezione IV, 26 aprile 2006, n. 2306). In tal senso, la stessa giurisprudenza afferma che la sanatoria in questione – in ciò distinguendosi da un vero e proprio condono – è stata deliberatamente circoscritta dal legislatore ai soli abusi «formali», ossia dovuti alla carenza del titolo abilitativo, rendendo così palese la ratio ispiratrice della previsione della sanatoria in esame, «anche di natura preventiva e deterrente», finalizzata a frenare l’abusivismo edilizio, in modo da escludere letture «sostanzialiste» della norma che consentano la possibilità di regolarizzare opere in contrasto con la disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della loro realizzazione, ma con essa conformi solo al momento della presentazione dell’ istanza per l’accertamento di conformità (citata pronuncia del Consiglio di Stato, sezione IV, 21 dicembre 2012, n. 6657).” 
Anche alla stregua delle richiamate stringenti indicazioni giurisprudenziali, la disposizione regionale in commento risulta illegittimamente adottata, avendo l’effetto di legittimare ex post, mediante rilascio del titolo abilitativo in sanatoria ex art. 14 della LR in esame (che recepisce con modifiche l’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001), interventi cui la stessa LR n. 16/2016 non avrebbe potuto essere applicata. 
A ciò si aggiunga che la portata del disposto del comma 1 dell’articolo 14 in commento è tale da consentire, in ipotesi, la legittimazione di possibili futuri interventi abusivi attraverso eventuali sopravvenute modifiche favorevoli della normativa urbanistica ed edilizia. Al riguardo, nella sentenza n. 1324/2014, Sez. V, il Consiglio di Stato ha avuto modo di precisare che “risulta del tutto ragionevole il divieto legale di rilasciare una concessione (o il permesso) in sanatoria, anche quando dopo la commissione dell’abuso vi sia una modifica favorevole dello strumento urbanistico. 
Tale ragionevolezza risulta da due fondamentali esigenze, prese in considerazione dalla legge: 
a) evitare che il potere di pianificazione possa essere strumentalizzato al fine di rendere lecito ex post (e non punibile) ciò che risulta illecito (e punibile); 
b) disporre una regola senz’altro dissuasiva dell’intenzione di commettere un abuso, perché in tal modo chi costruisce sine titulo sa che deve comunque disporre la demolizione dell’abuso, pur se sopraggiunge una modifica favorevole dello strumento urbanistico.”. 
In conclusione la disposizioni regionali in questione, introducendo fattispecie di condono in relazione ad interventi eventualmente abusivi realizzati prima dell’entrata in vigore della LR n. 16 del 2016 e una sorta di condono “a regime” per interventi in ipotesi abusivi effettuati dopo l’entrata in vigore della stessa, che dovessero risultare sanabili a seguito di ulteriori modifiche alla disciplina urbanistica ed edilizia, travalica la competenza legislativa esclusiva nella materia “urbanistica” attribuita alla Regione Siciliana dallo Statuto di autonomia (cfr. art. 14, comma 1, (lettera f) Testo coordinato dello Statuto speciale della Regione Siciliana approvato con R.D.Lgs. 15 maggio 1946, n. 455 (pubblicato nella G.U. del Regno d'Italia n. 133-3 del 10 giugno 1946), convertito in legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 2 (pubblicata nella GURI n. 58 del 9 marzo 1948), modificato dalle leggi costituzionali 23 febbraio 1972, n. 1 (pubblicata nella GURI n. 63 del 7 marzo 1972), 12 aprile 1989, n. 3 (pubblicata nella GURI n. 87 del 14 aprile 1989) e 31 gennaio 2001, n. 2 (pubblicata nella GURI n. 26 dell'1 febbraio 2001)”), invadendo la competenza esclusiva statale, atteso che, secondo i consolidati orientamenti della Corte Costituzionale, nella disciplina del condono edilizio converge la competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di sanzionabilità e quindi ordinamento penale di cui all’articolo117,comma 2, lettera l) della Costituzione. 

Non da ultimo, quale profilo di ulteriore contrasto con la disciplina statale, si rileva che, mentre il comma 3, dell’articolo 36 del dPR n. 380 del 2001, stabilisce che “3. Sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione, entro sessanta giorni decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata”, ai sensi del comma 3, del richiamato articolo 14 della LR 16 del 2016, “3. In presenza della documentazione e dei pareri previsti, sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione, entro novanta giorni decorsi i quali la richiesta si intende assentita.”. 
La norma regionale richiamata, dunque, introduce un meccanismo di silenzio assenso che discendeda dal mero decorso del termine di sessanta giorni, laddove l’articolo 36 del citato testo unico stabilisce la contraria regola che, in caso di richiesta di permesso in sanatoria, laddove non intervenga provvedimento motivato entro sessanta giorni, la richiesta si intende rifiutata. Essa incide pertanto su una causa estintiva (art. 45 TU) delle contravvenzioni contemplate dall’articolo 44 collegata di regola all’ottenimento di un provvedimento espresso circa la conformità delle opere realizzate in mancanza del permesso a costruire. Al contrario, in questo caso il giudizio di conformità può essere pretermesso, e l’effetto estintivo è ricollegato al mero silenzio dell’amministrazione. La disposizione incide su una materia riservata con riguardo agli effetti sulla causa estintiva (Art. 117, comma 2, lett. l, Cost) e pertanto eccede dalle competenze statutarie riconosciute alla Regione siciliana dallo Statuto Speciale di autonomia (R.D.L. 15 maggio 1946, n. 455, convertito in legge costituzionale n. 2/1948). La Corte Costituzionale con sentenza n.19 del 2014 ha ribadito il principio, applicabile anche alle Regioni ad autonomia speciale, secondo il quale “nessuna fonte regionale può introdurre nuove cause di esenzione della responsabilità penale, civile o amministrativa, trattandosi di materia non disciplinata dagli statuti di autonomia speciale e riservata alla competenza esclusiva del legislatore statale di cui all'art. 117, secondo comma, lett. l), Costituzione". 
La disposizione censurata contrasta altresì con l’articolo 3 della Costituzione, riguardo alle modalità di accertamento della natura esclusivamente formale dell’abuso realizzato, che solo consentirebbe il rilascio postumo del permesso. 

4 ) ARTICOLO 16 
L’articolo 16 reca “Recepimento con modifiche dell'articolo 94 "Autorizzazione per l'inizio dei lavori" del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380.” 
Il comma 1, di tale articolo prevede che: “1. Fermo restando l'obbligo del titolo abilitativo all'intervento edilizio, nelle località sismiche, il richiedente può applicare le procedure previste dall'articolo 32 della legge regionale 19 maggio 2003, n. 7.”. L’articolo 32, della L.R. n. 7 del 2003, richiamato nel comma in questione dispone quanto segue: “1. Al fine di snellire le procedure previste dalla legge 2 febbraio 1974, n. 64, ai sensi dell'articolo 20 della legge 10 dicembre 1981, n. 741 non si rende necessaria l'autorizzazione all'inizio dei lavori prevista ai sensi dell'articolo 18 della suddetta legge 2 febbraio 1974, n. 64.”. 
Con specifico riferimento al tema dell'autorizzazione sismica di cui all'art. 94 del TUE, che ne prevede l'obbligo prima dell'inizio dei lavori nelle località sismiche ad eccezione di quelle a bassa sismicità, il Giudice delle leggi, fin dalla sentenza n. 182 del 2006, ha ritenuto che il principio della previa autorizzazione scritta di cui all'indicata disposizione trae il proprio fondamento dall'intento unificatore del legislatore statale, il quale «è palesemente orientato ad esigere una vigilanza assidua sulle costruzioni riguardo al rischio sismico, attesa la rilevanza 
del bene protetto, che trascende anche l'ambito della disciplina del territorio, per attingere a valori di tutela dell'incolumità pubblica che fanno capo alla materia della protezione civile, in cui 
ugualmente compete allo Stato la determinazione dei principi fondamentali» e, successivamente, nel confermare l'intento unificatore della disciplina statale in tale ambito (sentenza n. 254 del 2010), ha anche ribadito la natura di principio fondamentale in relazione al menzionato art. 94 (sentenza n. 312 del 2010), sottolineando che gli interventi edilizi nelle zone sismiche e la relativa vigilanza fanno parte della materia della protezione civile, oggetto di competenza legislativa concorrente ai sensi dell'art. 117, terzo comma della Costituzione (sentenza n. 201 del 2012). 
Successivamente, la Corte Costituzionale, nella citata sentenza n. 101 del 2013, ribadendo orientamenti consolidati con riferimento alla necessità della previa autorizzazione all’inizio lavori per l’esecuzione di interventi edilizi nelle zone sismiche, ha precisato che “Nella sentenza n. 182 del 2006, la Corte ha dichiarato illegittima, per violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., una disposizione della legge della Regione Toscana n. 1 del 2005 in considerazione del mancato rispetto, sotto un diverso profilo, di una norma statale di principio prevista dall’art. 94 del d.P.R. n. 380 del 2001 sul controllo delle costruzioni a rischio sismico, nella parte in cui non stabiliva che non si possono iniziare lavori senza preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della Regione. La disposizione regionale prevedeva, infatti, il semplice preavviso alla struttura regionale competente, senza richiedere la predetta autorizzazione. Più in generale, in questa pronuncia la Corte ha affermato che «l’intento unificatore della legislazione statale è palesemente orientato ad esigere una vigilanza assidua sulle costruzioni riguardo al rischio sismico, attesa la rilevanza del bene protetto, che trascende anche l’ambito della disciplina del territorio, per attingere a valori di tutela dell’incolumità pubblica che fanno capo alla materia della protezione civile, in cui ugualmente compete allo Stato la determinazione dei principi fondamentali». Inoltre, con sentenza n. 201 del 2012, è stata dichiarata l’illegittimità di una disposizione della legge della Regione Molise 9 settembre 2011, n. 25…. Anche in questo caso la Corte ha ribadito che «la normativa regionale impugnata, occupandosi degli interventi edilizi in zone sismiche e della relativa vigilanza, rientra nella materia della protezione civile, oggetto di competenza legislativa concorrente ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost.». Tale inquadramento, recentemente ribadito nella sentenza n. 64 del 2013, era peraltro già stato affermato nelle sentenze n. 254 del 2010 e n. 248 del 2009, in riferimento alla illegittimità di deroghe regionali alla normativa statale per l’edilizia in zone sismiche, ed in relazione al titolo competenziale di tale normativa: la Corte ha ritenuto che essa rientri nell’ambito del governo del territorio, nonché nella materia della protezione civile, per i profili concernenti «la tutela dell’incolumità pubblica» (sentenza n. 254 del 2010).”. Tali rilevanti considerazioni sono state espresse anche nella successiva sentenza della Consulta n. 300 del 2013. 

Ciò posto, si osserva che lo Statuto speciale della Regione Siciliana non prevede espressamente la materia della “protezione civile”, né all’interno dell’articolo 14 (materie di competenza legislativa esclusiva), né nell’ambito dell’articolo 17 (materie concernenti la regione per le quali è attribuita competenza all’emanazione di leggi entro i limiti dei principi ed interessi generali cui si informa la legislazione dello Stato). Pertanto, ai sensi dell’articolo 10 della L.Cost. 18 ottobre 2001, n. 3, deve ritenersi che la Regione Siciliana sia titolare di potestà legislativa concorrente nella materia “protezione civile”. 

In conseguenza, alla luce delle precise indicazioni del Giudice delle Leggi, si ritiene che la disposizione regionale in argomento, risultando in contrasto con l’articolo 94 del d.P.R. n. 380 del 2001, che, al comma 1, stabilisce che “1. Fermo restando l'obbligo del titolo abilitativo all'intervento edilizio, nelle località sismiche, ad eccezione di quelle a bassa sismicità all'uopo indicate nei decreti di cui all'articolo 83, non si possono iniziare lavori senza preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della regione.”), sia stata emanata in contrasto con i principi fondamentali stabiliti dalla legislazione statale nella materia “protezione civile e, quindi, in violazione dell’articolo 117, terzo comma della Costituzione. 

Lo stesso articolo 16, al comma 3, dispone che “3. Per lo snellimento delle procedure di denuncia dei progetti ad essi relativi, non sono assoggettati alla preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio del Genio civile le opere minori ai fini della sicurezza per le costruzioni in zona sismica, gli interventi privi di rilevanza per la pubblica incolumità ai fini sismici e le varianti in corso d'opera, riguardanti parti strutturali che non rivestono carattere sostanziale, in quanto definiti e ricompresi in un apposito elenco approvato con deliberazione della Giunta regionale. Il progetto di tali interventi, da redigere secondo le norme del D.M. 14 gennaio 2008 e successive modifiche ed integrazioni, è depositato al competente ufficio del Genio civile prima del deposito presso il comune del certificato di agibilità.”. 
In proposito, si evidenzia che nella già citata sentenza n. 300 del 2013, la Corte Costituzionale ha anche rilevato che “la categoria degli “interventi di limitata importanza statica”, a cui fa riferimento la disposizione regionale impugnata, non è conosciuta dalla normativa statale: non se ne fa menzione nel citato d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), che pure, all’art. 3, è attento a classificare i diversi interventi edilizi all’interno di una specifica tassonomia; né la categoria utilizzata dal legislatore regionale è reperibile nella normativa tecnica, contenuta nel decreto del Ministro delle infrastrutture 14 gennaio 2008 (Approvazione delle nuove norme tecniche per le costruzioni). Dunque, già sotto questo profilo la legislazione regionale si discosta illegittimamente dalla normativa statale rilevante, perché introduce una categoria di interventi edilizi ignota alla legislazione statale. 
In ogni caso, il vizio di illegittimità costituzionale si palesa alla luce della risolutiva considerazione che la disposizione impugnata si pone in contrasto con il principio fondamentale che orienta tutta la legislazione statale, che esige una vigilanza assidua sulle costruzioni riguardo al rischio sismico. Infatti, con specifico riferimento al d.P.R. n. 380 del 2001, invocato quale parametro interposto nel presente giudizio, la Corte, nella sentenza n. 182 del 2006, ha affermato che l’«intento unificatore della legislazione statale è palesemente orientato ad esigere una vigilanza assidua sulle costruzioni riguardo al rischio sismico, attesa la rilevanza del bene protetto, che trascende anche l’ambito della disciplina del territorio, per attingere a valori di tutela dell’incolumità pubblica che fanno capo alla materia della protezione civile, in cui ugualmente compete allo Stato la determinazione dei principi fondamentali». Analogo principio è ribadito nella recente sentenza n. 101 del 2013. 
Pertanto, benché apparentemente l’impugnato art. 171 introduca una deroga soltanto in relazione a due specifiche previsioni della normativa statale [gli artt. 65 (R) e 93 (R) del d.P.R. n. 380 del 2001], in realtà la sua portata è più radicale e finisce per incidere, compromettendolo, sul principio fondamentale della necessaria vigilanza sugli interventi edilizi in zone sismiche. In ragione di ciò è irrilevante che l’impugnato art. 171 disponga che gli interventi edilizi «di limitata importanza statica» siano esenti soltanto dagli adempimenti di cui agli artt. 65 e 93 del d.P.R. n. 380 del 2001. Il suo effetto sostanziale, infatti, va oltre la deroga ai suddetti artt. 65 e 93 e consiste, piuttosto, nel sottrarre tali interventi edilizi «di limitata importanza statica» ad ogni forma di vigilanza pubblica. Infatti, i citati artt. 65 e 93 prescrivono gli obblighi minimi di segnalazione allo sportello unico, cosicché il legislatore regionale, esentando alcuni tipi di interventi edilizi dall’assolvimento di tali obblighi minimi, in realtà li esenta da qualsivoglia obbligo. La disposizione regionale impugnata consente, dunque, che determinati interventi edilizi in zona sismica siano effettuati senza che la pubblica autorità ne sia portata a conoscenza, precludendo a quest’ultima, a fortiori, qualunque forma di vigilanza su di essi. 
Vale la pena ricordare che recentemente l’art. 3, comma 6, del decreto-legge 6 giugno 2012, n. 74 (Interventi urgenti in favore delle popolazioni colpite dagli eventi sismici che hanno interessato il territorio delle province di Bologna, Modena, Ferrara, Mantova, Reggio Emilia e Rovigo, il 20 e il 29 maggio 2012), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 1° agosto 2012, n. 122, ha consentito – in relazione alle ricostruzioni e riparazioni delle abitazioni private – una deroga esplicita ad una serie di disposizioni, fra le quali gli artt. 93 e 94 del d.P.R. n. 380 del 2001. Tale deroga però, come ha rimarcato questa Corte nella sentenza n. 64 del 2013, è attuata, «non senza significato, proprio con disposizione statale, a conferma della necessità di quell’intervento unificatore più volte richiamato dalla giurisprudenza di questa Corte».” 

Alla luce di tali indicazioni, la disposizione regionale in commento che dispone: 
– l’esclusione dalla preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio del Genio civile per “le opere minori ai fini della sicurezza per le costruzioni in zona sismica, gli interventi privi di rilevanza per la pubblica incolumità ai fini sismici e le varianti in corso d'opera, riguardanti parti strutturali che non rivestono carattere sostanziale, in quanto definiti e ricompresi in un apposito elenco approvato con deliberazione della Giunta regionale”; 
– che “Il progetto di tali interventi, da redigere secondo le norme del D.M. 14 gennaio 2008 e successive modifiche ed integrazioni, è depositato al competente ufficio del Genio civile prima del deposito presso il comune del certificato di agibilità”, e, quindi, anche fino all’ultimazione dei lavori e dopo quest’ultima, mentre: l’articolo 65 del TUE stabilisce, al comma 1, che, “1. Le opere di conglomerato cementizio armato, normale e precompresso ed a struttura metallica, prima del loro inizio, devono essere denunciate dal costruttore allo sportello unico, che provvede a trasmettere tale denuncia al competente ufficio tecnico regionale.” e, al comma 3, che alla denuncia preventiva deve essere allegato il progetto; l’articolo 93 del TUE dispone che “1. Nelle zone sismiche di cui all'articolo 83, chiunque intenda procedere a costruzioni, riparazioni e sopraelevazioni, è tenuto a darne preavviso scritto allo sportello unico, che provvede a trasmetterne copia al competente ufficio tecnico della regione, indicando il proprio domicilio, il nome e la residenza del progettista, del direttore dei lavori e dell'appaltatore. 2. Alla domanda deve essere allegato il progetto, ….”, si pone in contrasto con i principi fondamentali nella materia "protezione civile", di cui agli articoli 94, 93 e 65 del d.P.R. n. 380 del 2001 e, quindi, viola l’articolo 117, terzo comma della Costituzione. 

Per i motivi esposti le disposizioni regionali sopra indicate devono essere impugnate dinanzi alla Corte Costituzionale ai sensi dell’art. 127 Cost.

16 Ottobre 2016 | By More

ESAMI AVVOCATO – PROVA SCRITTA – GIUDIZIO DI NON IDONEITA’ A SOSTENERE LE PROVE ORALI – VOTO NUMERICO – E’ illegittimo il mero voto numerico per la prova scritta di avvocato non accompagnato da motivazione almeno ob relationem

TAR Catania, sez. IV, Sentenza 6 ottobre 2016 n. 2546

Esami avvocato – Prova scritta – Giudizio di non idoneità a sostenere le prove orali – Voto numerico – Criteri predeterminati dalla Commissione insediata presso la Corte di Appello – Necessità di accompagnare il voto numerico da sintetica motivazione anche ob relationem ai criteri.

E’illegittimo il provvedimento di non idoneità a sostenere le prove orali, formulato dalla sottocommissione per gli esami di avvocato, mediante l’attribuzione del solo voto numerico,  in quanto il verbale di correzione, redatto dalla Commissione esaminatrice per gli esami di avvocato, non contiene una motivazione sintetica del giudizio negativo quanto meno con il rinvio ai criteri generali ritenuti non soddisfatti.

 

Nota: il TAR rimeditando la questione, già esaminata nel merito in occasione di precedenti identiche selezioni (cfr., da ultimo, T.A.R. Catania, sez. IV, 09/04/2015, n. 1033) e, ribaltando il proprio precedente orientamento, ha ritenuto di dover condividere il più recente indirizzo già riaffermato dalla stessa sezione in numerose ordinanze cautelari (cfr. nn.745/15; 770/15; 782/15), nonché dal C.G.A. (cfr. ordinanze nn. 653/15, 657/15, 660/15, 75/16) ha aderito al filone giurisprudenziale secondo cui l’attribuzione di un voto numerico, idoneo a sintetizzare il giudizio della Commissione su ogni singolo elaborato scritto, deve essere sempre accompagnato da una espressione lessicale che anche sinteticamente consenta di cogliere quali siano gli aspetti critici e/o deficitari individuati in sede di correzione dell’elaborato, in relazione ai parametri di valutazione indicati e stabiliti ex lege e dalla stessa Commissione Centrale in quanto solo ciò consente di ripercorrere l’iter valutativo della Commissione e, quindi, controllare la logicità e la congruità del giudizio dalla stessa formulato (Cons. St., sez. V, 17/01/2011 n. 222); diversamente, il punteggio numerico risulta opaco ed incomprensibile (Cons. St., sez. VI, 12/12/2011 n. 6491).

Nel caso esaminato la Commissione d’esame locale ha fatto propri i dettagliati criteri generali fissati dalla Commissione centrale individuati al fine di valutare le prove scritte d’esame e pertanto, in sede di correzione degli elaborati, avrebbe ben potuto e dovuto utilizzarli come parametri di riferimento ai quali ricondurre analiticamente e specificamente il proprio giudizio negativo. Inoltre, al fine di rendere palesi e comprensibili le ragioni di tale giudizio, nonché di consentire un effettivo e necessario sindacato giurisdizionale (altrimenti impossibile), la Commissione locale avrebbe dovuto esplicitare, a sostegno dell’unico complessivo voto numerico attribuito, gli aspetti del singolo elaborato ritenuti più o meno gravemente deficitari in relazione ai criteri fissati dalla Commissione Centrale.

 

N. 02546/2016 REG.PROV.COLL.

N. 01740/2016 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia

sezione staccata di Catania (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

ex art. 60 cod. proc. amm.;
sul ricorso numero di registro generale 1740 del 2016, proposto da ****: , rappresentata e difesa dall'avvocato  , con domicilio eletto presso il suo studio in Catania, c.so delle Province 15; 

contro

Ministero della Giustizia, IV Sottocomm. Per Gli Esami di Avvocato – Sess. 2015 – Presso La Corte di Appello di Torino, rappresentati e difesi per legge dall'Avvocatura Dello Stato, domiciliata in Catania, via Vecchia Ognina, 149; 

per l'annullamento

-del provvedimento di non ammissione agli esami orali per l'abilitazione alla professione di avvocato – sess. 2015.

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di Ministero della Giustizia e di IV Sottocomm. Per Gli Esami di Avvocato – Sess. 2015 – Presso La Corte di Appello di Torino;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nella camera di consiglio del giorno 6 ottobre 2016 il dott. Giancarlo Pennetti e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Sentite le stesse parti ai sensi dell'art. 60 cod. proc. amm.;

I. La ricorrente ha partecipato alla sessione degli esami per l’iscrizione nell’Albo degli Avvocati indetta per l’anno 2015, tra le altre, presso la sede della Corte d’Appello di Catania.

I relativi elaborati scritti sono stati valutati dalla Sottocommissione di esami nominata presso la Corte d’Appello di Torino.

In esito a detta valutazione, gli elaborati della ricorrente hanno riportato i seguenti punteggi: diritto civile 27, diritto penale 28, atto giudiziario 25, per un punteggio complessivo di 80.

Tale risultato non ha consentito l’ammissione della stessa alle prove orali.

Con ricorso notificato il 20.9.2016 e depositato il giorno successivo, la ricorrente ha impugnato il provvedimento di non ammissione alle prove orali e gli atti ad esso connessi, affidandosi a varie censure.

L’Amministrazione, costituitasi, ha concluso per l’infondatezza del ricorso.

All’Udienza camerale del 6.10.2016 la causa è stata trattenuta in decisione.

II. Il ricorso, essendo stato dato apposito avviso alle parti all’udienza camerale di trattazione, può essere deciso con sentenza in forma semplificata.

Il Collegio esamina con precedenza la censura con la quale parte ricorrente si duole, sostanzialmente, dell’assolvimento della valutazione della prova scritta mediante la mera espressione del voto numerico, in spregio ai principi e alle disposizioni che impongono l’obbligo di motivazione.

Occorre premettere che già l’art. 22, co. 9, del R.D. 1578/1933 stabilisce i seguenti criteri di valutazione:

“La commissione istituita presso il Ministero della giustizia definisce i criteri per la valutazione degli elaborati scritti e delle prove orali e il presidente ne dà comunicazione alle sottocommissioni. La commissione è comunque tenuta a comunicare i seguenti criteri di valutazione:

a) chiarezza, logicità e rigore metodologico dell'esposizione;

b) dimostrazione della concreta capacità di soluzione di specifici problemi giuridici;

c) dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati;

d) dimostrazione della capacità di cogliere eventuali profili di interdisciplinarietà;

e) relativamente all'atto giudiziario, dimostrazione della padronanza delle tecniche di persuasione”.

La Commissione centrale istituita presso il Ministero della Giustizia, in data 1.12.2015, ha integrato tale elenco con i seguenti ulteriori elementi di valutazione:

a) correttezza della forma grammaticale, sintattica ed ortografica e padronanza del lessico italiano e giuridico;

b) chiarezza, pertinenza e completezza espositiva, capacità di sintesi, logicità e rigore metodologico delle argomentazioni ed intuizione giuridica;

c) dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati, nonché degli orientamenti della giurisprudenza;

d) dimostrazione di concreta capacità di risolvere problemi giuridici anche attraverso riferimenti alla dottrina e l’utilizzo di giurisprudenza (il richiamo a massime giurisprudenziali riportate nei codici annotati è consentito; tuttavia, i relativi riferimenti testuali vanno adeguatamente virgolettati o comunque deve esserne indicata la fonte giurisprudenziale);

e) dimostrazione della capacità di cogliere eventuali profili di interdisciplinarietà, anche con specifici riferimenti al diritto costituzionale e comunitario per la soluzione di casi che vengono prospettati in una dimensione europea, ovvero presentino connessioni con altre materie giuridiche;

f) coerenza dell’elaborato con la traccia assegnata ed esauriente indagine dell’impianto normativo relativo agli istituti giuridici di riferimento;

g) capacità di argomentare adeguatamente le conclusioni tratte, anche se difformi dal prevalente indirizzo giurisprudenziale e/o dottrinario;

h) dimostrazione della padronanza delle scelte difensive e delle tecniche di persuasione per ciò che concerne, specificamente, l'atto giudiziario.

Tanto premesso, il Collegio ritiene di dover rimeditare la questione, già esaminata nel merito in occasione di precedenti identiche selezioni (cfr., da ultimo, T.A.R. Catania, sez. IV, 09/04/2015, n. 1033) e, ribaltando il proprio precedente orientamento, di dover condividere il più recente indirizzo di non poche pronunce della Giurisprudenza di merito, invero già riaffermato da questa Sezione in numerose ordinanze cautelari (cfr. nn.745/15; 770/15; 782/15), nonché dal C.G.A. (cfr. ordinanze nn. 653/15, 657/15, 660/15, 75/16).

Secondo tali pronunce, l’attribuzione di un voto numerico, idoneo a sintetizzare il giudizio della Commissione su ogni singolo elaborato scritto, deve essere sempre accompagnato da una espressione lessicale che, quanto meno, anche sinteticamente, consenta di cogliere quali siano gli aspetti critici e/o deficitari individuati in sede di correzione dell’elaborato, in relazione ai parametri di valutazione sopra indicati e stabiliti ex lege e dalla stessa Commissione Centrale.

Solo in tal modo, infatti, è possibile ripercorrere il percorso valutativo della Commissione e, quindi, controllare la logicità e la congruità del giudizio dalla stessa formulato (Cons. St., sez. V, 17/01/2011 n. 222); diversamente, il punteggio numerico risulta opaco ed incomprensibile (Cons. St., sez. VI, 12/12/2011 n. 6491).

Nel caso degli esami de quibus, la Commissione d’esame locale ha fatto propri – in aderenza a quanto prescritto dal verbale dell’1.12.2015 della Commissione centrale – tutti i dettagliati criteri generali da quest’ultima individuati al fine di valutare le prove scritte d’esame.

Pertanto, in sede di correzione degli elaborati, la detta commissione locale avrebbe ben potuto e dovuto utilizzarli come parametri di riferimento ai quali ricondurre analiticamente e specificamente il proprio giudizio negativo.

Inoltre, al fine di rendere palesi e comprensibili le ragioni di tale giudizio, nonché di consentire un effettivo e necessario sindacato giurisdizionale (altrimenti impossibile), la Commissione locale avrebbe dovuto esplicitare, a sostegno dell’unico complessivo voto numerico attribuito, gli aspetti del singolo elaborato ritenuti più o meno gravemente deficitari in relazione ai criteri fissati dalla Commissione Centrale.

In altri termini, la Commissione avrebbe dovuto espressamente indicare, quanto meno, i criteri non ritenuti rispettati dall’elaborato corretto (ad esempio, esposizione, esauriente trattazione delle varie parti della traccia, capacità di soluzione di specifici problemi giuridici, dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati, correttezza della forma grammaticale, ecc.), nonché, ove necessarie (in quanto non di per sé immediatamente evidenti), le sintetiche ragioni per le quali si è espresso tale giudizio.

Del resto, parte della Giurisprudenza (cfr. TAR Lombardia Milano, Sez. III, 10/02/2016, n. 253), muovendo dall'art. 46 della L. n. 247 del 2012, secondo il quale "la commissione annota le osservazioni positive o negative nei vari punti di ciascun elaborato, le quali costituiscono motivazione del voto che viene espresso con un numero pari alla somma dei voti espressi dai singoli componenti", pur ammettendo <<che la norma transitoria di cui al successivo art. 49 ne ha differito l'applicazione>> ha <<in ogni caso evidenziato che il precedente art. 46 non rappresenta altro che una modalità di estrinsecazione del dovere di motivazione che comunque è richiesto unitamente all'espressione di un voto in forma puramente numerica; pertanto, se si può ritenere che fino all'entrata in vigore del predetto art. 46 non si può imporre quanto contenuto nello stesso, nondimeno non può ritenersi legittima la semplice apposizione di un voto numerico senza alcun altro indice in grado di chiarire, anche sinteticamente, le ragioni della specifica valutazione. Ciò appare in linea con quella parte della giurisprudenza che ritiene non preclusa una diversa soluzione ermeneutica nel vigente quadro normativo (T.A.R. Lombardia, Milano, III, 28 dicembre 2015, n. 2757; altresì T.A.R. Lazio, Roma, II quater, 14 luglio 2015 n. 9413; in senso contrario, tra gli altri, T.A.R. Campania, Napoli, VIII, 1 settembre 2015, n. 4271, unitamente all'ordinanza n. 5167/2014 della Quarta Sezione del Consiglio di Stato, relativa proprio al caso de quo)>>.

Alla luce di quanto esposto, assorbita ogni altra censura, il ricorso va accolto e, pertanto, va disposto che la Commissione, in diversa composizione e nel rispetto del principio dell’anonimato, dovrà procedere, in osservanza dei criteri indicati, a una nuova correzione degli elaborati giudicati insufficienti, entro 40 giorni dalla notificazione o comunicazione della presente sentenza.

Le spese del giudizio, in ragione dei contrasti giurisprudenziali sulla questione esaminata, possono essere integralmente compensate tra le parti.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia sezione staccata di Catania (Sezione Quarta)

definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie nei modi e nei sensi di cui alla parte motiva.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Catania nella camera di consiglio del giorno 6 ottobre 2016 con l'intervento dei magistrati:

Giancarlo Pennetti, Presidente, Estensore

Pancrazio Maria Savasta, Consigliere

Francesco Bruno, Consigliere

IL PRESIDENTE, ESTENSORE

   

Giancarlo Pennetti

   

IL SEGRETARIO

 

13 Ottobre 2016 | By More

EDILIZIA – CONCESSIONE E PERMESSO DI COSTRUIRE – ONERI DI URBANIZZAZIONE – DEMOLIZIONE E RICOSTRUZIONE – Tar Catania 6.4.2016 – Ordinanza

Tar Catania, 6.4.2014, n. 262, pres. Vinciguerra, rel. Burzichelli.

Dal contributo per gli oneri di urbanizzazione deve essere sottratto l'importo imputabile al carico urbanistico generato dall'edificio preesistente e, laddove la costruzione originaria sia stata realizzata in un periodo antecedente alla legge che ha introdotto nell'ordinamento l'istituto del contributo concessorio, il relativo onere deve ritenersi assolto virtualmente, visto che, in caso contrario, verrebbe data un'inammissibile applicazione retroattiva alla sopravvenuta disciplina impositiva.

14 Aprile 2016 | By More

PROCESSO AMMINISTRATIVO – DECRETO PRESIDENZIALE ANTE CAUSAM – Improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse – Irreversibilità effetti

La sopravvenuta carenza di interesse alla misura cautelare per la cessazione del “periculum in mora” comporta la cancellazione della causa dal ruolo camerale per la trattazione della domanda di sospensione cautelare ancorché la cessazione della situazione di “periculum” sia stata determinata dal precedente Decreto Presidenziale che, in tal modo, viene sottratto alla verifica collegiale e determina effetti irreversibili.

13 Aprile 2016 | By More