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L’INTERDITTIVA E’ SOLO REQUISITO PER LA STIPULA E NON DI PARTECIPAZIONE? – CGA, 27.4.2017 n. 201, sentenza, pres. Deodato, est. Gaviano – Con nota dell’avv. Ignazio Scuderi
CGA, decisione 27.4.2017 n. 201, pres. Deodato, est. Gaviano
INTERDITTIVE ANTIMAFIA – IL C.G.A. AVVERTE: ai prefetti non è dato “un potere extra ordinem” altrimenti “si perverrebbe ad un aberrante meccanismo … simile a quella su cui si fondava … l’inquisizione medievale” – Sentenza 3.8.2016, pres. Zucchelli, rel. Modica de Mohac
C.G.A. 3.8.2016 n. 257, sentenza, pres. Zucchelli, rel. Modica de Mohac
1. – Pubblica sicurezza – Interdittiva antimafia – Garanzie in tema di repressione penale – Applicabilità nella sua interezza all'interdittiva – Esclusione.
2. – Pubblica sicurezza – Interdittiva antimafia – Garanzie in tema di applicazione delle misure di prevenzione – Applicabilità all'interdittiva a maggior ragione.
3. – Pubblica sicurezza – Interdittiva antimafia – Applicazione della interdittiva antimafia – Necessità di particolare prudenza e specifiche cautelare per evitare censure di incostituzionalità o violazione di diritti inviolabili garantiti dal diritto comunitario ed internazionale.
4. – Pubblica sicurezza – Interdittiva antimafia – Attuazione del principio di legalità attraverso la delimitazione obiettiva e la definizione rigorosa della fattispecie: artt. 84, comma 4, 85, comma 6, e 91 comma 6, d.lgv. 159/2011.
5. – Pubblica sicurezza – Interdittiva antimafia – Individuazione, attraverso gli artt. 84, comma 4, 85, comma 6, e 91 comma 6, d.lgv. 159/2011: a) dei soggetti "mafiosi" e "presunti mafiosi"; b) delle caratteristiche della loro condotta; c) degli elementi utili per la verifica della situazione di pericolo.
6. – Pubblica sicurezza – Interdittiva antimafia – Determinazione, attraverso gli artt. 84, comma 4, 85, comma 6, e 91 comma 6, d.lgv. 159/2011, di una nozione tecnica, e non meramente sociologica, di "tentativo di infiltrazione mafiosa" e in base a meri sospetti ("su cui si fondava … l'inquisizione medievale")
7. – Pubblica sicurezza – Interdittiva antimafia – Precedenti mafiosi con esiti assolutori o liberatori – Irrilevanza ai fini della pericolosità.
8. – Pubblica sicurezza – Interdittiva antimafia – Mera frequentazione di un presunto mafioso o di un soggetto acclaratamente mafioso – Irrilevanza ai fini del contagio.
9. – Pubblica sicurezza – Interdittiva antimafia – Possibilità anche di un'interdittiva antimafia basata su considerazioni induttive o deduttive diverse da quelle espressamente individuate dal Legislatore – Ma inesistenza di un potere extra ordinem imperniato su un inedito "principio del libero convincimento".
10. – Pubblica sicurezza – Interdittiva antimafia – Pericolo di infiltrazioni mafiose – Desumibilità dalle frequentazioni di "mafiosi" o "presunti mafiosi" in senso tecnico – Condizioni.
1. – Allo stato del dibattito culturale in tema di misure di prevenzione, non può essere accettata l’idea secondo cui il regime di garanzie che assiste il sistema della repressione penale debba essere esteso ed applicato nella sua totalità al sistema della prevenzione. L’affermazione dell’opposto principio determinerebbe, invero, la (pressocchè totale) soppressione del sistema di prevenzione (o la costruzione di un sistema ibrido, malfunzionante).
2. – Si applicano a maggior ragione all'interdittiva antimafia le regole valevoli in tema di misure di prevenzione in merito alle quali la Corte Costituzionale ha avuto modo di esprimersi affermando che “Il principio di legalità in materia di prevenzione, il riferimento, cioè, ai ‘casi previsti dalla legge’, lo si ancori all'art. 13 ovvero all'art. 25, terzo comma, Cost., implica che la applicazione della misura, ancorché legata, nella maggioranza dei casi, ad un giudizio prognostico, trovi il presupposto necessario in ‘fattispecie di pericolosità’, previste e descritte dalla legge; fattispecie destinate a costituire il parametro dell'accertamento giudiziale e, insieme, il fondamento di una prognosi di pericolosità, che solo su questa base può dirsi legalmente fondata” (Corte Cost., n.177/1980).
3. – L’ "interdittiva antimafia" è, infatti, una misura di prevenzione sui generis in quanto – come chiarito dalla Giurisprudenza – finisce inevitabilmente per determinare un pregiudizio anche nei confronti dei soggetti che hanno subito l’azione di infiltrazione, e cioè sia a carico dei soggetti passivi nella c.d. “contiguità soggiacente” (di cui in C.S., VI^, 30.12.2005 n.7619 che ne tratteggia la differenza rispetto alla diametralmente opposta c.d. “contiguità compiacente”) sia – paradossalmente – a carico di soggetti terzi estranei e totalmente incolpevoli; ragion per cui la sua applicazione dev’essere ‘dosata’ con particolari prudenza ed equilibrio ed avvolta da specifiche ‘cautele’ (così, testualmente, in CS, V^, 27.6.2006 n.4135; CS, IV^, 4.5.2004 n.2783) affinchè sia scongiurato il rischio che la normativa che la disciplina subisca censure di incostituzionalità o determini procedimenti di infrazione per violazione di diritti inviolabili garantiti dal diritto comunitario ed internazionale, o venga comunque censurata dagli Organi della Giustizia comunitaria.
4. – Il Legislatore, consapevole della potenza dirompente dell’istituto interdittivo e della sua concreta idoneità (o tendenza) a ledere taluni fondamentali ‘diritti di libertà’, in conformità al principio di tipicità, fin da tempo risalente, ha delimitato la fattispecie di pericolo con una certa precisione, individuando ed indicando, ai fini della corretta applicazione delle norme che disciplinano l’utilizzazione della misura in questione, gli indici rivelatori o sintomatici della esistenza di infiltrazioni mafiose, in precedenza identificati dall'art. 4 d.lgv. 490/1994 e dall'art. 10, comma 7, del d.P.R. 252/1998, ed ora individuati nel codice antimafia dagli artt. 84, comma 4, 85, comma 6, e 91 comma 6. Sicchè, in base a tali norme, è possibile pervenire ad una delimitazione obiettiva e ad una definizione rigorosa della fattispecie indicata come “tentativo di infiltrazione mafiosa” e ad una nozione tecnica di tale fattispecie.
5. – Il Legislatore, con gli artt. 4 d.lgv. 490/1994 e 10, comma 7, del d.P.R. 252/1998, ed ora con gli artt. 84, comma 4, 85, comma 6, e 91 comma 6, del codice antimafia, ha individuato ed indicato: – sia i soggetti che per precedenti penali, carichi pendenti o posizione giudiziaria, o per altre circostanze ad essi riferibili (ad esempio la “convivenza” o la “coabitazione”) siano da considerare “mafiosi”, o comunque in qualche modo “contigui alla mafia” (o ad altre organizzazioni criminali equiparate) e dunque ‘presunti mafiosi’ ed intrinsecamente pericolosi; – sia le caratteristiche oggettive e soggettive che la loro condotta deve presentare per essere considerata come indice rivelatore di pericolosità; – sia, ancora, gli elementi che devono essere valutati al fine di verificare la effettiva e concreta sussistenza della situazione di pericolo o di rischio che giustifica l’adozione della misura.
6. – Dall’analisi e dalla ricostruzione sistematica della predetta (disorganica e frammentaria) normativa è possibile pervenire ad una delimitazione obiettiva e ad una definizione rigorosa della fattispecie indicata come “tentativo di infiltrazione mafiosa” e ad una nozione tecnica di tale fattispecie. Se infatti prevalesse una nozione meramente sociologica (anzicchè tecnicamente giuridica) del fenomeno associativo mafioso, si finirebbe per giungere ad una estensione extra ordinem (incontrollata ed incontrollabile) del concetto di ‘pericolosità sociale’ che potrebbe innescare meccanismi abnormi e perversi dei quali potrebbero finire per beneficiare, paradossalmente, gli stessi gruppi criminali; se fosse possibile qualificare "mafioso" un soggetto sulla scorta di meri sospetti si perverrebbe ad un aberrante meccanismo di estensione a catena della pericolosità simile a quella su cui si fondava … l'inquisizione medievale.
7. – Nel rispetto dei principi di legalità e di certezza del diritto – per essere considerato mafioso non è (e non può essere) sufficiente aver subìto – con l’accusa di cui all’art.416 bis del codice penale – un procedimento penale poi conclusosi con un proscioglimento o con una assoluzione; o un ‘procedimento di prevenzione antimafia’ conclusosi – magari svariati anni prima – con formula liberatoria, o avere subìto una ‘misura di prevenzione’ annullata per difetto dei presupposti applicativi; o essere stato ‘illo tempore’ condannato per associazione di stampo mafioso (o per concorso esterno in associazione mafiosa) pur avendo ormai scontato la pena ed ottenuto la riabilitazione (così, pacificamente, in: CS, VI^, 3.9.2009 n.5194; CS, V^, 26.11.2008 n.5846; CS, VI^, 9.9.2008 n.4306; CS., V^, 31.5.2007 n.2828; CS.VI^, 25.9.2008 n.5780). Similmente non è sufficiente far parte (o intrattenere rapporti di amicizia con un membro) di una famiglia che annoveri fra i suoi componenti uno o più soggetti che abbiano subìto i predetti procedimenti con gli esiti assolutori o liberatori sopra indicati.
8. – La mera frequentazione di un presunto mafioso (ma tale considerazione vale anche per l’ipotesi di mera frequentazione di un soggetto acclaratamente mafioso) non può determinare il ‘contagio’; altrimenti si determinerebbe una catena infinita di presunzioni atte a colpire un numero enorme di soggetti senza alcuna seria valutazione in ordine alla loro concreta vocazione criminogena con instaurazione di un regime di polizia.
9. – L’elenco degli elementi da cui desumere la sussistenza della situazione di pericolo di infiltrazioni mafiose desumibile dalle norme sopra citate non è tassativo. Ed invero l’art.10, comma 7, lettera ’c’ del DPR 3 giugno 1998 n.252 (che, come già osservato, è applicabile alla fattispecie ratione temporis) e, oggi (a regime), gli artt. 84, comma 4, lett. ‘d’ ed ‘e’, 91, comma 6, nonchè 93, commi 2 e 4, del codice antimafia lasciano desumere che il provvedimento interdittivo possa basarsi – ove se ne ravvisi la necessità – su considerazioni induttive o deduttive diverse da quelle che hanno spinto il Legislatore ad indicare (con la rilevata precisione) gli “indici presuntivi” fin qui descritti. Tuttavia tali norme non hanno la funzione logico-giuridica, né la forza e l’effetto, di estendere ad libitum la categoria dei “presunti mafiosi” (e delle presunzioni destinate ad accompagnare tali individui). Il complesso di poteri da esse attribuiti ai prefetti non va dunque equiparato ad un’autorizzazione – extra ordinem – a tralasciare di compiere indagini fondate su condotte e/o su elementi di fatto percepibili (e/o ad omettere nel provvedimento interdittivo ogni riferimento ad indici obiettivi rivelatori di pericolosità); né può essere considerato come una sorta di viatico per l’affermazione di un inedito “principio del libero convincimento” in ordine alla pericolosità da infiltrazione mafiosa.
10. – Il pericolo della sussistenza di infiltrazioni mafiose può essere desunto anche dal fatto che soci e/o amministratori dell’impresa o della società soggetta a controllo “frequentano” soggetti che siano qualificabili, in senso tecnico, "mafiosi" o "presunti mafiosi"). Ma le presunzioni dovranno essere gravi, precise e concordanti. Non è sufficiente, al riguardo, affermare nel provvedimento interdittivo che un determinato soggetto è stato “notato” accompagnarsi con un soggetto malavitoso. Occorrerà precisare la ragione tecnica per la quale quest’ultimo va considerato mafioso (nel senso tecnico fin qui indicato; e non già nel significato sociologico e non giuridico che il termine spesso assume); le circostanze di tempo e di luogo in cui è stato identificato; e le ragioni logico-giuridiche per le quale si ritiene che si tratta non di mero incontro occasionale (o di incontri sporadici), ma di “frequentazione” effettivamente rilevante (ossia di relazione periodica, duratura e costante volta ad incidere sulle decisioni imprenditoriali).
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INFORMATIVA ANTIMAFIA – Il Tar si ferma innanzi alle valutazioni del prefetto – Il C.G.A. annulla l’interdittiva per difetto di istruttoria e di motivazione – Ruolo crescente dell’istruttoria del giudice – TAR Palermo 26.3.2014 E C.G.A. 2.10.2015
C.G.A. 2.10.2015 n. 627, sentenza, pres. Lipari, est. Barone (previa istruttoria con ord. C.G.A. 25.02.2015 n. 141, pres. Lipari, est. Barone, annulla Tar Palermo, 26.3.2014, n. 892, sentenza, pres. D’Agostino, est. Cappellano).
1. Ordine pubblico e sicurezza pubblica – Informativa antimafia – Rilevanza dei rapporti parentali – Concorrenza di altre circostanze – Necessità.
2. Ordine pubblico e sicurezza pubblica – Informativa antimafia – Discrezionalità del prefetto – Controllo giurisdizionale – Impatto del provvedimento su diritti fondamentali – Necessità di un punto di equilibrio.
1. E’ insufficiente a giustificare l’interdittiva il semplice il rapporto di parentela tra il ricorrente ed altri soggetti ritenuti controindicati, senza che vengano indicate altre circostanze, quali una forma di cointeressenza, di comunanza di interessi, di frequentazione o comunque di contiguità, che, unendosi agli indicati rapporti di parentela, possano in concreto far dubitare di possibili condizionamenti mafiosi.
2. I provvedimenti considerati, che seguono a procedimenti privi delle garanzie del processo penale, limitano libertà altrettanto importanti della libertà personale quali il diritto al lavoro, inteso come libertà di scegliere il lavoro cui dedicarsi e ciò tanto nei confronti di chi ha inteso lavorare con le modalità dell’impresa quanto di chi all’interno dell’impresa svolge il proprio lavoro in forma subordinata. I provvedimenti interdittivi impattano quindi con diritti fondamentali che spettano a tutti, in quanto uomini, senza distinzione alcuna e producono a volte effetti devastanti di gran lunga più gravi delle sentenze penali. Se quindi da un lato va valorizzato il potere di prevenire, o troncare se già in corso, tentativi di infiltrazione mafiosa nel settore dell’imprenditoria (per arginare la grave piaga della delinquenza organizzata) dall’altro è necessaria la ricerca di un prudente punto di equilibrio per non svuotare di contenuto diritti ritenuti dalla stessa giurisprudenza amministrativa inalienabili, insopprimibili e incomprimibili.
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Nota
1. Sulla rilevanza dei rapporti parentali nella valutazione del rischio di condizionamento mafioso il Tar ha condiviso il punto di vista della Prefettura, tra l’altro perché parte ricorrente tenta di revocare in dubbio la natura di affiliato del genitore dell’attuale amministratore unico, sostenendo che non vi sarebbero elementi, per fare dichiarare alla Prefettura che detto soggetto sarebbe da ritenere “affiliato alla locale consorteria mafiosa denominata “Code Piatte”; ma la stretta contiguità al contesto mafioso dei parenti menzionati (zio e padre del predetto) risulta dagli atti processuali prodotti dalla p.a. (v. ordinanza di custodia cautelare n. 3950/2007 relativa all’operazione di polizia denominata “Kaos”).
Il CGA ha invece rilevato che anche con riferimento a tali circostanze l’unico elemento prospettato dall’Amministrazione è il rapporto di parentela tra il ricorrente ed altri soggetti ritenuti controindicati, senza che vengano indicate altre circostanze, quali una forma di cointeressenza, di comunanza di interessi, di frequentazione o comunque di contiguità, che, unendosi agli indicati rapporti di parentela, possano in concreto far dubitare di possibili condizionamenti mafiosi.
Del resto – prosegue il C.G.A. – un filone giurisprudenziale oggi prevalente, dal quale il Consiglio non ha ragione di dissentire, proprio con riferimento alla sussistenza di rapporti di parentela, coniugio o affinità con soggetti ritenuti in possibile contiguità con la malavita organizzata, ha ritenuto che la sussistenza di tali rapporti “non è sufficiente da sola a suffragare l’ipotesi della sussistenza di tentativi d’infiltrazione mafiosa, dovendosi quest’ultima basarsi, anche su altri elementi, sia pure indiziari, tali nel loro complesso da fornire obiettivo fondamento al giudizio di possibilità che l’attività di impresa possa, anche in maniera indiretta, agevolare le attività criminali o esserne in qualche modo condizionata…” (Cons. Stato, sez. III, 18.1.2013,n. 280 e già prima sez. III 23.2.2012 n. 1068; 12.11.2011 n. 5995 e 14.9.2011 n.5130).
2. Anche sul controllo delle valutazioni prefettizie le posizioni sono contrapposte.
Il Tar ha ritenuto che le valutazioni del Prefetto sulla rilevanza dei rapporti parentali fossero immuni da vizi, evidenziando che la contestazione del ricorrente, definita “labiale”, non tiene conto del fatto che, alle spalle accertamenti dell’amministrazione, c’è il lavoro di controllo capillare e costante del territorio, e di profonda conoscenza dello stesso, da parte delle Forze dell’Ordine.
Il C.G.A. sul punto ritiene invece che quelle valutazioni non siano indiscutibili. Prima dispone apposita istruttoria e, all’esito, annulla per difetto di istruttoria e di motivazione perché l’ampiezza dei poteri prefettizi di accertamento, che il Collegio ritiene quanto mai opportuna, non equivale ad assoluta libertà di valutare i fatti accertati, il cui apprezzamento deve essere esternato in termini di coerenza, senza salti logici o supposizioni non supportate da precise circostanze. Non bisogna trascurare che i provvedimenti considerati, che seguono a procedimenti privi delle garanzie del processo penale, limitano libertà altrettanto importanti della libertà personale quali il diritto al lavoro, inteso come libertà di scegliere il lavoro cui dedicarsi e ciò tanto nei confronti di chi ha inteso lavorare con le modalità dell’impresa quanto di chi all’interno dell’impresa svolge il proprio lavoro in forma subordinata. I provvedimenti interdittivi impattano quindi con diritti fondamentali che spettano a tutti, in quanto uomini, senza distinzione alcuna e producono a volte effetti devastanti di gran lunga più gravi delle sentenze penali. Se quindi da un lato va valorizzato il potere di prevenire, o troncare se già in corso, tentativi di infiltrazione mafiosa nel settore dell’imprenditoria (per arginare la grave piaga della delinquenza organizzata) dall’altro è necessaria la ricerca di un prudente punto di equilibrio per non svuotare di contenuto diritti ritenuti dalla stessa giurisprudenza amministrativa inalienabili, insopprimibili e incomprimibili. Applicando al caso all’esame del Collegio i suddetti principi era necessario che l’Amministrazione non supponesse o ipotizzasse il pericolo d’infiltrazione mafiosa oltre i dati accertati, ma procedesse ad oggettivi riscontri dell’asserito pericolo e restasse aderente ai medesimi (v. ancora sez. III, 280/13), mentre ha centrato le sue valutazioni sui rapporti di parentela, mentre l’unico elemento oggettivo utilizzato, la posizione del sig. S.A., è risultato inconsistente.
20-2015.10.02-n.-627-CGA-sent.
INFORMATIVA ANTIMAFIA – IL PARENTE DECEDUTO E QUELLO SCAGIONATO – Decisioni contrastanti (senza istruttoria) – C.G.A. 29.5.2013
C.G.A. 29.5.2013 n. 499, sentenza, pres. Virgilio, est. Neri (annulla Tar Palermo del 14 marzo 2012, n. 555, sentenza, pres. D’Agostino, est. Tulumello).
1. Ordine pubblico e sicurezza pubblica – Informativa antimafia – Rilevanza dei rapporti parentali – Parente mafioso deceduto
2. Ordine pubblico e sicurezza pubblica – Informativa antimafia – Parente scagionato dall’accusa di stampo mafioso
3. Ordine pubblico e sicurezza pubblica – Informativa antimafia – Socio di minoranza con parente condannato per reati comuni.
4. Ordine pubblico e sicurezza pubblica – Informativa antimafia – Denuncia di atti intimidatori – Rilevanza – Necessità di valutazione complessiva.
5. Ordine pubblico e sicurezza pubblica– Informativa antimafia – Rischi di infiltrazione mafiosa – Requisito dell’attualità.
1. Il richiamo contenuto nell’interdittiva ad un parente condannato per associazione per delinquere di stampo mafioso e deceduto per cause naturali nel 2005, non valeva a connotare il «modus vivendi» dei soci ma a rendere chiara l’esistenza sullo sfondo di un possibile – non necessariamente per legge certo – contatto tra i soci e l’ambiente criminale.
2. Sotto altro aspetto il legame con «persone successivamente scagionate» – quali il Gamma 1, condannato per alcuni reati, ma inequivocabilmente assolto in un procedimento per mafia e coinvolto in altro procedimento poi archiviato – evidenzia l’esistenza di un concreto pericolo che per il suo tramite si realizzino tentativi di infiltrazione mafiosa.
3. E’ legittima l’interdittiva emanata in considerazione anche della presenza nella società appellata di soci, seppure con partecipazioni di tipo minoritario, legati da vincoli di parentela a persone vicine ad ambienti criminali (lo dimostrano le condanne per ricettazione, nonché per detenzione e porto abusivo di armi irrogate a Gamma 1 oltre che la misura di prevenzione da questi riportata)
4. In relazione alla circostanza relativa alla denuncia sporta per gli atti di intimidazione subiti – che nella tesi della società appellata sarebbero incompatibili con la regola di omertà che contraddistingue l’universo mafioso – va rilevato che a tale elemento non può attribuirsi tout-court carattere prevalente sugli altri elementi emersi perché, come affermato dalla giurisprudenza, la valutazione deve essere globale e non frazionata e perché appartiene alla lata valutazione discrezionale (censurabile solo per manifesta illogicità, irrazionalità o irragionevolezza che, nel caso di specie, non ricorre) dare valore preponderante agli elementi contrari o a favore dell’infiltrazione.
5. Per legge non è necessario che l’infiltrazione mafiosa sia in atto, ma è sufficiente il tentativo, con esposizione al condizionamento delle scelte e degli indirizzi societari (Cons. St., VI, 5 marzo 2012 n. 1240); per l’adozione dell’atto è bastevole la mera possibilità di interferenze della criminalità rivelate da fatti sintomatici o indiziari (Cons. St., III, 23 luglio 2012 n. 4208).
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Nota
Le due sentenze nella medesima vicenda processuale pervengono a conclusioni contrapposte l’una negando e l’altra affermando la legittimità dell’interdittiva prefettizia antimafia, in presenza di parente mafioso ma deceduto, di legami con persone successivamente scagionate, di socio con condanne per reati comuni (ricettazione, detenzione e porto abusivo di armi) e con misura di prevenzione.
C.G.A. n. 499/2013 ha argomentato nel modo seguente (n.b.: il termine “Gamma” sostituisce il cognome dei parenti coinvolti).
1. “Giova al riguardo premettere che il TAR ha così deciso sul punto: «… La materia del contendere concerne la legittimità dell’informativa antimafia con cui la Prefettura di Agrigento ha valutato esistenti pericoli di infiltrazione della criminalità organizzata nella società ricorrente. Detto giudizio prognostico, come ribadito anche a seguito dell’istruttoria disposta dal collegio, è stato formulato – peraltro in modo generico – unicamente sulla base di legami di natura parentale fra alcune persone operanti nella società, e soggetti appartenenti alla criminalità organizzata. Come già chiarito dalla Sezione in sede di motivazione dell’ordinanza cautelare, “gli elementi valutati in chiave inferenziale attengono in realtà a circostanze non attuali e superate da provvedimenti giudiziari di archiviazione o di proscioglimento”. Non soltanto l’amministrazione ha fondato il proprio giudizio sulla base esclusivamente di legami parentali, in assenza di circostanze che qualificano il rapporto di parentela, quali, soprattutto, l’intensità del vincolo e il contesto in cui si inserisce, e facendo addirittura riferimento ad un modus vivendi che immancabilmente discenderebbe dal vincolo parentale: il che – per un consolidato indirizzo giurisprudenziale – non è sufficiente ad escludere un’impresa dal circuito dell’economia legale in quanto ragionevolmente sospettabile di essere a rischio di infiltrazioni di tipo mafioso (ex multis, Consiglio Stato, sez. VI, 20 gennaio 2009, n. 268); ma quegli elementi attengono a posizioni di persone successivamente scagionate in sede giudiziaria da ogni accusa, o decedute (il che priva di rilevanza anche il più labile – e non autosufficiente – collegamento logico fra costoro e gli attuali responsabili della società) …»”.
2. Ed invece, “a differenza di quanto sostenuto dal TAR, l’amministrazione ha fatto buon uso delle regole in materia perché i «legami parentali» non sono stati richiamati per descrivere un «modus vivendi» che immancabilmente discenderebbe dal vincolo parentale ma per manifestare l’esistenza di un contatto con ambienti che potrebbero realizzare un tentativo di infiltrazione all’interno della società. In tale prospettiva il riferimento a Gamma 3, condannato per associazione per delinquere di stampo mafioso e deceduto per cause naturali nel 2005, non valeva a connotare il «modus vivendi» dei soci ma a rendere chiara l’esistenza sullo sfondo di un possibile – non necessariamente per legge certo – contatto tra i soci dell’odierna appellata e l’ambiente criminale. Sotto altro aspetto il legame con «persone successivamente scagionate» – quali il Gamma 1, condannato per alcuni reati, ma inequivocabilmente assolto in un procedimento per mafia e coinvolto in altro procedimento poi archiviato – evidenzia l’esistenza di un concreto pericolo che per il suo tramite si realizzino tentativi di infiltrazione mafiosa. Per legge, come è noto, non è necessario che l’infiltrazione mafiosa sia in atto, ma è sufficiente il tentativo, con esposizione al condizionamento delle scelte e degli indirizzi societari (Cons. St., VI, 5 marzo 2012 n. 1240); per l’adozione dell’atto è bastevole la mera possibilità di interferenze della criminalità rivelate da fatti sintomatici o indiziari (Cons. St., III, 23 luglio 2012 n. 4208)”. “In altri termini”, secondo il CGA, “la presenza nella società appellata di soci, seppure con partecipazioni di tipo minoritario, legati da vincoli di parentela a persone vicine ad ambienti criminali (lo dimostrano le condanne per ricettazione, nonché per detenzione e porto abusivo di armi irrogate a Gamma 1 oltre che la misura di prevenzione da questi riportata) o legati da vincoli di sangue con persone condannate per mafia, seppure ormai decedute (Gamma 3), sono elementi che l’amministrazione ha valutato – con giudizio non irragionevole e non illogico – come sufficienti per ritenere accertato il tentativo di infiltrazione mafiosa che, come detto, è circostanza diversa dalla vera e propria prova dell’infiltrazione mafiosa. Inoltre, come affermato dalla giurisprudenza, appunto, l’informativa antimafia prescinde dall’accertamento della rilevanza penale dei fatti, in quanto non mira all’enucleazione di responsabilità, ma si concretizza come la forma di massima anticipazione dell’azione di prevenzione, inerente alla funzione di polizia e di sicurezza, rispetto alla quale assumono rilievo fatti e vicende solo sintomatici ed indiziari; di conseguenza il provvedimento emesso o da emettere in sede penale e quello amministrativo si collocano su differenti ed autonomi piani nel senso che l’informativa, se emessa ai sensi dell’art. 10 comma 7 lett. c), d.P.R. 3 giugno 1998 n. 252, prescinde completamente da ogni provvedimento penale a carico degli appartenenti all’impresa (sia pure di carattere preventivo o anche assolutorio) e si giustifica considerando il pericolo dell’infiltrazione mafiosa, che non deve essere immaginario, ma neppure provato, purché sia fondato su elementi presuntivi e indiziari, la cui valutazione è rimessa alla lata discrezionalità del prefetto, sindacabile in sede di legittimità sotto il profilo della illogicità, incoerenza o inattendibilità (Cons. St., III, 27 settembre 2012 n. 5117)”.
2. Inoltre, secondo il C.G.A., “l’ulteriore argomentazione relativa ad una partecipazione minoritaria dei Gamma nella compagine societaria non è convincente. Basti al riguardo considerare che il pericolo di infiltrazione mafiosa può, a giudizio del Collegio, evincersi anche da partecipazioni minoritarie di soggetti vicini ad ambienti malavitosi perché ciò appare sufficiente per esporre gli altri soci a pericoli di condizionamenti che non necessariamente passano per il confronto e la “misurazione delle rispettive forze” in seno all’assemblea dei soci. Per tale ragione risulta infondato il punto n. 3 della memoria di costituzione con il quale è stato riproposto il secondo motivo di ricorso di primo grado”. 3. Ed ancora, “in relazione alla circostanza relativa alla denuncia sporta per gli atti di intimidazione subiti – che nella tesi della società appellata sarebbero incompatibili con la regola di omertà che contraddistingue l’universo mafioso – va rilevato che a tale elemento non può attribuirsi tout-court carattere prevalente sugli altri elementi emersi perché, come affermato dalla giurisprudenza, la valutazione deve essere globale e non frazionata e perché appartiene alla lata valutazione discrezionale (censurabile solo per manifesta illogicità, irrazionalità o irragionevolezza che, nel caso di specie, non ricorre) dare valore preponderante agli elementi contrari o a favore dell’infiltrazione. In altri termini gli elementi raccolti non vanno considerati separatamente dovendosi piuttosto stabilire se sia configurabile un quadro indiziario complessivo, dal quale possa ritenersi attendibile l’esistenza di un condizionamento da parte della criminalità (Cons. St., III, 23 luglio 2012 n. 4208)”.
4. Infine, sempre secondo il C.G.A., “sotto il profilo dell’esistenza del requisito dell’attualità, a prescindere dal fatto che tale elemento è valutato con larga ampiezza sia dal legislatore sia dalla giurisprudenza, occorre evitare la sovrapposizione tra le indicazioni temporali riportate nell’informativa (data del decesso di Gamma 3, epoca dei procedimenti penali, eventuale data di condanna per un certo fatto di reato) e la circostanza consistente nel fatto che il pericolo dipende non dal momento in cui tali fatti sono avvenuti ma dalla possibilità che la società, in ragione di una porzione di compagine sociale, sia potenzialmente esposta a rischio di condizionamento mafioso. Tale ultimo argomento è sufficiente per ritenere quindi superate le argomentazioni relative ad una nota positiva dei Carabinieri risalente al 2009 o alle precedenti informative non ostative …”.
INFORMATIVA ANTIMAFIA – VALUTAZIONE DEI FATTI PREGRESSI – CGA 18.2.2016 n.44
C.G.A. – sentenza – 18.2.2016, N. 44
Ordine pubblico e sicurezza pubblica – Informativa antimafia – Valutazione fatti pregressi – Possibilità – Sussiste
Nella sentenza in esame gli appellanti invocano la sostanziale elusione da parte dell’Amministrazione delle decisioni cautelari con le quali lo stesso CGA (ord. 627/2013) aveva ritenuto gli elementi posti a fondamento della interdittiva originariamente adottati inidonei a supportarne il contenuto.
Si contesta infatti che l’Amministrazione avrebbe emesso la interdittiva ultima, senza un vero riesame dei fatti e soprattutto introducendo nuove circostanze di fatto, note all’Amministrazione, che, in quanto anteriori alla prima interdittiva, avrebbero dovuto essere vagliate, in sede istruttoria, già all’epoca.
Il Consiglio ha osservato che qualora in sede di appello cautelare il giudice d’appello segnali il venir meno dei provvedimenti restrittivi emessi a carico dei soggetti “inquinanti”, tale indicazione non può essere intesa come un limite all’acquisizione e considerazione di eventuali ulteriori elementi indiziari nei riguardi dei soci dell’impresa, tanto successivi quanto antecedenti. Sicché il fatto che l’Amministrazione – in sede di riesame – abbia ritenuto di dare rilievo a fatti pregressi, ritenuti rilevanti a seguito dell’approfondimento operato e in ragione del nuovo quadro attualizzato che essa ha ritenuto di ricostruire non esclude di principio la possibilità di una nuova interdittiva e non può essere invocato perciò come consumata violazione del giudicato cautelare.